Solitamente siamo abituati a considerare un evento, un luogo, o un qualunque fatto storico vicino o lontano in base alla distanza, spaziale o temporale, che lo separa da noi stessi. E la distanza, che sia espressa in centimetri, metri e chilometri, o in ore, mesi e anni, diventa un qualcosa di misurabile in modo certo e oggettivo.

Elementi archivio per misurare il cambiamento

Ma non sempre la questione è così semplice, ci sono tempi e spazi che non possono essere misurati con la rigida precisione di un cronometro o di un metro, in cui la misurazione oggettiva viene sostituita da una percezione soggettiva della distanza tra l’osservatore e un dato fenomeno. È la distanza psicologica, la cui principale unità di misura è il grado di affinità tra il sentire dell’osservatore e la natura di ciò che è osservato.

Succede così, e a chi frequenta archivi succede spesso, che avvenimenti anche molto recenti siano percepiti come orizzonti lontani, non più condivisibili perché frutto di una mentalità che è troppo diversa da quella presente. O al contrario, fatti accaduti secoli or sono possono sembrare stranamente vicini semplicemente perché si prestano ad essere interpretati con la stessa sensibilità dei tempi attuali.

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Questione di sensibilità dunque. Quella sensibilità per la quale lo spettatore di oggi impallidisce di fronte all’inizio di “Pianeta Acciaio”, forse il filmato più acclamato di tutta la produzione audiovisiva Italsider e realizzato nel 1962 per celebrare la nascita della società, avvenuta formalmente solo un anno prima. La seppur superba voce di Arnoldo Foà, chiamato a interpretare gli altrettanto superbi testi -almeno da un punto di vista del lirismo narrativo- di Dino Buzzati, di fronte ad un placido tramonto sulla costa in riva al mare, dominata fino a quel momento da ulivi secolari e dal frinire delle cicale, esulta per l’inarrestabile brutalità delle ruspe chiamate a sradicare senza pietà quegli alberi millenari: “Via gli ulivi, via le vecchie casupole, via le cicale e l’antico incanto mediterraneo. Via! Poche ore sono state abbastanza per cancellare millenni. Ora qui gli uomini hanno costruito una cattedrale immensa di metallo e di vetro per scatenarvi dentro quel mostro infuocato che si chiama acciaio e che significa vita”.

Era la natura che si piegava al progresso, di cui lo sviluppo, specie quello industriale, era considerato parte integrante. Erano anni in cui queste due parole, sviluppo e progresso, erano considerate ancora sinonimi, poiché ancora da venire erano le riflessioni di Pasolini sull’argomento, il quale -forse non per primo ma sicuramente nel modo più efficace- ne spiegò la differenza, legando lo sviluppo al profitto e il progresso all’etica e alla morale. Viste oggi, quelle scene generano una profonda inquietudine e, sebbene siano state girate in un’epoca relativamente recente, le percepiamo come lontanissime dal nostro modo di sentire, quasi disturbanti, perché ormai è stata interiorizzata, o almeno così si spera, la necessità di tutelare l’ambiente quale conditio sine qua non del progresso della società. 

Ma non è tanto l’assenza di un qualsivoglia afflato ambientalista -cosa del resto prevedibile in un filmato prodotto da un colosso siderurgico come l’Italsider- ad aumentare le distanze tra “Pianeta Acciaio” e lo spettatore del XXI secolo, quanto l’esaltazione della civiltà industriale senza se e senza ma, senza alcun tipo di dubbio o di esitazione, una fede cieca nell’acciaio, nelle macchine e nel progresso tecnologico che sfocia nel finale del filmato persino nel liturgico.

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Sullo stesso argomento ma decisamente più attuale e più affine al nostro sentire, sebbene precedente di nove anni, è la riflessione di Ungaretti contenuta nell’editoriale del primo numero di «Civiltà delle Macchine», periodico fondato nel 1953 dal poeta ingegnere Leonardo Sinisgalli. Del resto la rivista era nata in un periodo storico particolare: da un lato gli orrori della guerra, nel 1953 ancora così vicini nella memoria da non poter neppure essere definiti ricordi, con quell’inquietudine di fondo che si portavano dietro, generata dall’aver compreso in tutta la sua drammaticità la fragilità della vita umana, e dall’altro la voglia di rinascita e di ricostruzione, l’idea di un progresso potenzialmente senza limiti e la volontà di mettere quelle stesse macchine e tecnologie, portatrici di morte e distruzione durante la guerra, al servizio della collettività. Ungaretti, nella sua “Lettera” a Sinisgalli, pur mantenendo una visione ottimistica del futuro, non riesce e non vuole nascondere i suoi timori: “Vi è una forza, che è nella macchina, che si moltiplica dalla macchina generatrice inesauribile di macchine sempre più poderose, che ci rende sempre più inermi davanti alla sua cecità, alla sua metrica che si fa cieca per l’uomo, che perde ogni memoria per l’uomo smemorando essa l’uomo”. Il Poeta, di fronte all’avanzare delle macchine, non ha certezze ma solo dubbi, e la sua “Lettera” si chiude con una domanda che è ancora per molti versi attualissima: “Come farà l’uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso?”.

La stessa sensazione di estraneità e di lontananza non giustificata dal tempo trascorso la si prova di fronte a un altro filmato, prodotto e realizzato questa volta nel 1958 dall’Elettra Film, “Bilbolbul e l’ananas. Storiellina africana per i più piccoli”. Il video, di cui non si conosce il committente, riprende la figura di Bilbolbul, il bambino africano dall’aria un po’ tonta protagonista dell’omonima serie a fumetti ideata da Attilio Mussino e pubblicata dal 1908 sul «Corriere dei Piccoli», le cui avventure si collocavano nell’Africa orientale, all’epoca al centro della politica coloniale italiana.

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Se giustamente la lettura del fumetto originale va contestualizzata nel suo periodo storico e non la si può interpretare con la mentalità di oggi, perché scritto più di un secolo fa, ben prima che tematiche quali il razzismo si imponessero all’attenzione pubblica, bisogna invece aver presente che il filmato in questione è posteriore al fumetto di ben cinquant’anni, quando cioè uomini come Martin Luther King e Nelson Mandela  già avevano iniziato a portare alla ribalta con la loro militanza temi quali l’acquisizione di diritti civili per tutti gli individui indipendentemente dal colore della loro pelle.

Inoltre, cosa non da poco, se molti esperti ancora oggi sottolineano l’estro grafico di Mussino e l’ottima caratura stilistica del fumetto che lo rendono per l’epoca, stilisticamente parlando, davvero all’avanguardia, la stessa cosa non può dirsi per il filmato del 1958 che, riproponendo scelte grafiche simili a quelle adottate un cinquantennio prima, risulta datato e molto più stereotipato dell’originale, rappresentando ancora il “negretto” con i labbroni sporgenti, l’occhio un po’ vacuo, quasi completamente nudo e che vive in una capanna di paglia.

Alla luce di queste considerazioni, ancor più stupefacente, e molto più vicina al nostro sentire comune, risulta la descrizione che il capitano di mare Francesco Gerolamo Ansaldo, nel lontano 1877, tratteggia nei suoi scritti a proposito delle popolazioni con cui viene in contatto durante i suoi lunghi viaggi: “Belli poi sono i neri. Alti e aitanti di persona, di colorito nerastro o nerissimo, di forme perfette, secchi e robusti, dall’aspetto ardito, naso aquilino, bocca piccola, labbra regolari, occhi neri sormontati da sopracciglia rette […]. E da vecchi sono pure assai imponenti, sembrano conservare tutta l’arditezza della gioventù unità alla gravità dell’età senile. Che bianche barbe e che occhi sfolgoranti!”. Ma quello che davvero sorprende dei resoconti di viaggio del capitano di mare è il profondo rispetto che egli nutre per quelle genti, per i loro culti e per i loro usi. Francesco Gerolamo A. non si pone come il tipico occidentale dell’epoca, superiore per natura e con la presunzione di dover esportare in quelle terre lontane i valori dell’Occidente, non è - per così dire - uomo del suo tempo, ma al contrario la sua curiosità e la sua apertura mentale lo rendono estremamente attuale e uomo dei giorni nostri.

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“Pianeta Acciaio” e Bilbolbul del 1908 sono solo due esempi di prodotti culturali dall’alto e innegabile valore artistico ma distanti psicologicamente dalla sensibilità attuale. Bisogna dunque astenersi dal guardarli? Assolutamente no, perché anzi proprio nella loro distanza, nei loro messaggi valoriali oggi non condivisibili sta il loro valore aggiunto. Se da un lato, infatti, sarebbe un grave errore volerli leggere con gli occhi di oggi, poiché solo sospendendo il giudizio sulla società italiana dell’epoca che li ha generati possono essere compresi in tutta la loro eccezionale, universale e oggettiva bellezza, d’altro canto questo non significa che non possa esserci spazio per una valutazione critica della bellezza. Certo che dobbiamo leggere le opere nella loro epoca, ma se non le facciamo parlare con quel che siamo oggi a cosa serve leggerle? Se entrambi sono “belli” allora tanto più forniscono una occasione buonissima per interrogarci sulla società di allora e sulla direzione che sta prendendo quella attuale, non per tacere.