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5 giugno

Convivialità e coscienza operaia nella fabbrica italiana

di Beatrice Carabelli

L’articolo vuole fornire una breve panoramica della storia delle mense aziendali, contestualizzato nell’area genovese con il punto di vista privilegiato che offre l’azienda Ansaldo. Partendo dal 1917 viene indagata la documentazione inerente la creazione di locali adibiti a mensa per gli operai, un beneficio dettato da motivi paternalistici all’interno di una logica utilitaristica, fino ad arrivare alla seconda metà degli anni Cinquanta in cui la mensa diventa un diritto acquisito e rivendicato.

La consumazione del pasto scandisce la nostra giornata, la condivisione del cibo è la sostanza della convivialità caratteristica tipicamente umana. Lo storico Jack Goody, in un’indagine sul consumo sociale del cibo, non pone il focus sull’esplorazione dell’azione naturale ma analizza come le modalità di condivisione del pasto possano rappresentare una strutturazione interna della società stessa, a inaugurare lo studio sul quadro strutturale sociale in relazione alla condivisione del cibo più che alla funzione puramente biologica era stata Mary Douglas[1].

L’introduzione della mensa aziendale come abitudine giornaliera introduce una specifica forma di temporizzazione dal carattere distintivo che supera il classico gruppo ristretto genitori-figli ma genera quello che potremmo definire la «convivialità del lavoro». Il pasto in comune è un elemento centrale della nostra vita sociale, indicatore delle nostre relazioni/ amicizie, la mensa impone una socializzazione e sulla base di questi presupposti guardare all’affermazione delle mense aziendali consente di osservare da un’altra prospettiva la formazione di una coscienza operaia, riunita intorno al tavolo – inteso come cerchio di conversazione – la mensa aziendale non è nata per lo scopo ma è servita a costruire un senso di comunità, a dar vita a un’identità comune forte, capace di  trascendere le mura della fabbrica.

Il quadro sociale

Partendo dalla ricerca di Giuliana Bertagnoni sulla storia della ristorazione aziendale in Italia, la saggista data la nascita della prima mensa destinata ai lavoratori, all’interno del primo villaggio operaio inglese. In Italia un’organizzazione analoga emerse nel quadro vicentino, negli anni Sessanta dell’Ottocento, il quartiere operaio “Nuova Schio” che sorse per volontà dell’imprenditore Alessandro Rossi[2].

Il ritardo nello sviluppo industriale italiano rispetto a quello europeo rallentò la crescita di un movimento operaio organizzato. Gli operai di fabbrica rappresentavano solo una piccola minoranza: a metà dell’Ottocento l’industria occupava solo il 18% della popolazione attiva, di cui il settore trainante era quello tessile, contro il 70% dell’agricoltura e il 12% dell’artigianato. Nel primo censimento industriale del 1911, tuttavia, l’industria avanzata, che nella media nazionale occupava il 39,8%  degli addetti, raggiungeva il 48,7% in Piemonte, superava il 58% in Lombardia e in Liguria si assestava a poco meno del 50% di cui il settore trainante era quello meccanico metallurgico[3]. Dal punto di vista sociale il mondo operaio era caratterizzato da un’instabilità occupazionale che ne determinava la precarietà delle condizioni economiche, il rapporto di lavoro era individuale e non esistevano diritti collettivi a cui fare riferimento. Le difficili condizioni lavorative costituirono le motivazioni per la nascita delle prime organizzazioni di lavoratori industriali, influenzandone le strategie e le finalità. Fino ai primi anni ’70 dell’Ottocento le uniche organizzazioni operaie di una certa consistenza erano le società di mutuo soccorso, prevalentemente territoriali e professionalmente miste, concepite essenzialmente con scopi di solidarietà in una società senza assicurazioni contro la malattia, disoccupazione e vecchiaia, temi che avrebbero costituito i cardini del successivo sistema welfare[4]. È attraverso il lavoro, faticoso e malpagato, che si formò un movimento operaio, unito nella fatica ma ancora frammentato in federazioni di mestiere e Camere del Lavoro, fino alla costituzione nel 1892 a Genova del Partito dei lavoratori italiani, che nel 1895 assunse il nome definitivo di Partito socialista italiano. In Italia sindacato e partito ebbero una genesi comune, e nuove realtà organizzative nacquero sull’onda delle agitazioni di inizio Novecento. Nel 1901 sorse la federazione dei metallurgici (Fiom) e nel 1906 a Milano le varie anime dei sindacati si federarono, sul modello dell’esperienza sindacale degli altri paesi europei, nella Confederazione generale del lavoro. Nelle linee programmatiche dell’agenda d’azione vi era l’esigenza di un coordinamento nazionale che permettesse di superare la squilibrata distribuzione territoriale e colmasse quel vuoto dovuto all’assenza di un organo centrale capace di guidare le agitazioni[5]. Investito dalla società di massa il potere politico deve aprirsi per sopravvivere, allargare le basi su cui poggia il proprio consenso. Dapprima fu approvata una legge provinciale e comunale che estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni in grado di leggere, scrivere o che pagassero almeno 5 lire di imposte all’anno (1888) e nel 1912 fu approvata la legge per il suffragio universale maschile. Nello stesso anno fu istituito un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi dovevano finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia per i lavoratori[6].

Storicizzare la «convivialità del lavoro» nel caso Ansaldo, 1917-1920

Conseguenza dello sviluppo industriale fu la necessità di consumare il pasto nel luogo di lavoro, un elemento che richiedeva l’organizzazione di uno spazio e di un servizio dedicato, una necessità legata all’accelerazione dei ritmi dell’attività produttiva, che comportò la regolarizzazione e un disciplinamento dei tempi occupazionali e liberi dei lavoratori. Se da un lato riprendendo le parole dello storico Merli «l’operaio non è più al centro del suo mondo economico e affettivo» bensì sottoposto al sistema della divisione del lavoro che pone in primo piano l’esigenza della produzione[7]; dall’altro lato la condivisione del pasto andava a plasmare l’identità operaia e il riconoscimento di appartenenza a uno stesso settore occupazionale andava a rinforzare il senso di comunità.

Come è evidente le nascenti organizzazioni sindacali non potevano concentrarsi sulle criticità della questione operaia, le mense non rientravano quindi negli obiettivi primari che si snodavano nella creazione di un movimento operaio unito, nella difesa del salario e nella promozione di una legislazione sociale e del lavoro. Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali si accompagnò a un aumento degli scioperi ottenendo un rialzo dei salari che continuò, non senza interruzioni, fino all’entrata in guerra[8].

Nonostante vi fosse l’esigenza del servizio erano rare le fabbriche che disponessero di mense per gli operai. In linea con l’orario di lavoro nazionale, anche negli stabilimenti Ansaldo era prevista una pausa di un’ora e mezza su 10 ore di lavoro, che arrivarono a 14-16 ore, soprattutto durante il periodo bellico.

 La grande guerra rappresentò per il mondo del lavoro una svolta epocale. Segnò lo sviluppo della grande industria e creò le condizioni per l’affermarsi di nuove modalità di intervento dello stato nelle politiche del lavoro. Le principali industrie nazionali furono mobilitate Gli stanziamenti destinati alla fabbricazione di ogni genere di armamenti e l’equipaggiamento delle unità combattenti, non soltanto accrebbero la grande industria e permisero l’espansione di piccole imprese ma arricchirono i principali gruppi.

Le maestranze che lavoravano nelle industrie dichiarate ausiliarie dell’esercito furono sottoposte alla disciplina militare, le infrazioni al regolamento di fabbrica divennero punibili con il codice militare. Gli operai qualificati, giudicati necessari alla produzione, potevano essere esonerati dalla partenza per il fronte ma gli straordinari furono resi obbligatori, alcuni stabilimenti raggiunsero le 70 ore settimanali. Sino al termine del conflitto i contratti di lavoro in vigore nelle aziende chiamate alla “mobilitazione” furono prorogati per legge e il diritto di sciopero abolito[9].

Ed è qui che emerge la necessità per l’Ansaldo di dotare alcuni stabilimenti di mense. L’orizzonte culturale di riferimento in cui si sarebbero installate le mense aziendali era quello di una concezione paternalistica dei rapporti di lavoro, cioè l’idea del padrone come buon padre che provvede ai bisogni degli operai, soprattutto di quelli meritevoli con forme di assistenza. Concependo l’azienda come una famiglia gerarchicamente organizzata, in cui al vertice stava l’imprenditore[10].

Durante il conflitto nel 1917, il direttore della Fabbrica di Tubi di Fegino presenta al presidente dell’Ansaldo la necessità di istituire una mensa per andare in contro alle esigenze della classe lavoratrice

Inspirandoci a quei criteri che già ebbero ad informare altri grandi Stabilimenti i previsione dell’inverno prossimo in cui, per la limitazione e la scarsità di generi alimentari, la vita dei meno abbienti si troverà costretta fra nuove difficoltà; in considerazione altresì della molta lontananza del nostro Stabilimento dai centri di abitazione del personale in genere il quale, per poter giungere a casa a consumarvi un pasto più pulito ed economico di quello che gli può venir servito nelle cantine prossime, si vedrebbe costretto a percorrere nello spazio di tempo dalle 12 alle 13 e 30, un lungo tratto di strada non favorita da tram ed in pessimo stato di manutenzione; abbiamo creduto doveroso affermare la nostra attenzione sulla possibilità e convenienza di istituire una specie di refettorio nel quale a mezzogiorno potesse venir servito, al minor prezzo possibile, un pasto composto di minestra, pane e vino al nostro personale che ritenesse conveniente di valersene[11].

Lettera di Giovanni Rossi direttore della Fabbrica Tubi Ansaldo di Fegino al presidente Pio Perrone 1917

Il locale doveva essere conveniente alle esigenze, doveva quindi trovarsi in prossimità dello Stabilimento Fabbrica di Tubi, fu individuato il locale Chalet Cervisia e sarebbe stato necessario chiedere l’appoggio all’ Ente Autonomo dei Consumi per l’approvvigionamento di una certa quantità di generi alimentari quali: pasta, riso, lardo, patate. Il 23 ottobre il direttore della Fabbrica di Tubi faceva richiesta all’Ente confidando «che vorrà benevolmente dare il suo indispensabile appoggio all’effettuazione dell’umana idea, che ridonderà a vantaggio di laboriosi operai», le maestranze che ne avrebbero beneficiato sarebbero state circa 200, il cui pasto sarebbe stato composto di minestra, pane e vino. La provvista giornaliera che avrebbe dovuto conferire l’Ente era di 20 kg di pasta o farina 30 kg, farina 40 kg, fagioli 10 kg, patate 10 kg, lardo 5 kg.

Sempre in relazione alle difficoltà legate al servizio tramviario, l’ingegner Manzitti, direttore dello Stabilimento per la costruzione Artiglieria, presentava l’esigenza di risolvere il problema «della colazione per i non pochi operai che abitano lontani dai nostri Stabilimenti di Sampierdarena», si proponeva quindi di chiedere all’Autorità Militare la  requisizione del terreno preposto «al gioco del pallone» da adibire a refettorio degli operai.[12] 

Tuttavia nell’accettare la richiesta la presidenza sottolineava che quello sarebbe dovuto essere inteso come «atto di favore, altrimenti si sarebbe creato l’increscioso principio che la Ditta dovrebbe dar da mangiare a tutti gli operai»[13]. Benché nella premessa ci fosse da parte dei Perrone la volontà di elargire la mensa solamente per lo Stabilimento Artiglieria, a dicembre dello stesso anno le difficili condizioni logistiche causate dalla guerra indussero la dirigenza all’assunzione temporanea del cav. Mario Almagià «per risolvere il problema dei refettori per tutti gli stabilimenti»[14].

Lettera di Pio Perrone alling. Manzitti 1917

Al termine del conflitto, il reinserimento dei reduci fu un problema che si pose con drammatica urgenza alle classi politiche, gli uomini avevano rischiato la propria vita in battaglia, chi tornò a casa aveva una nuova consapevolezza dei propri diritti, con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. Altrettanto drammatico era il panorama economico, le industrie dovettero affrontare le difficoltà della riconversione[15].

 Il bilancio statale era dissestato e i miliardi di debiti con l’estero intensificarono la crisi economica. Nelle fabbriche aumentarono i conflitti e, nelle campagne, contadini e braccianti si mobilitarono. Scioperi e occupazioni animarono gli anni 1919 – 1920 che verranno consegnati alla storia come “biennio rosso”. Gli scioperi dell’industria passarono dai 300 del ’18 ai 1660 del ’19 con un numero di lavoratori coinvolti superiore al milione. I conflitti sociali raggiunsero il culmine nell’estate-autunno del 1920 con l’occupazione delle fabbriche, l’evento segnerà la fine del biennio rosso in Italia[16].

Si spiega così un maggior riguardo nel trattamento degli operai che si evince anche in una lettera del 1920 da parte del direttore dei Cantieri Aeronautici di Borzoli. Una volta ultimato il servizio mensa per gli operai, fu fatta richiesta di 3.000 lire per sopportare le spese del refettorio (già istituito) per 60 impiegati (capi e sottocapi officina, capi squadra),  un’istanza causata dall’alto prezzo delle trattorie vicine al cantiere[17].

Nello stesso anno anche lo Stabilimento Acciaierie e Fonderie faceva richiesta per istituire una mensa impiegati, un bisogno sentito con l’arrivo dell’estate per la distanza con la rete tramviaria che imponeva un lungo tragitto durante le ore più calde della giornata. Il refettorio sarebbe stato predisposto in orario unico, con un’ora soltanto per la consumazione del pasto, «certi che avrà come risultato un maggior rendimento del nostro personale impiegato»[18]. Fecero una gara per il preventivo di dotazione, in cui furono incluse Fondina, piatto, bicchiere, posate, bottiglia, tovagliolo e tovaglia per una spesa complessiva che ammontava sulle 18,95 lire per ciascun commensale, per un totale di 300 impiegati, capi officine e dirigenti, un totale di 300 pasti l’anno per 300 giorni l’anno, sui quali grava un sovraprezzo di 0,15 lire. Veniva inoltre chiesto alla Direzione lo stipendio per un cuoco, un sottocuoco e 4 donne inservienti fisse, per un ammontare di 1,600 lire al mese. «Riserbandosi la Direzione la facoltà di concedere un piccolo compenso a parte, per la sola ora del pasto, a un ristretto numero di personale, scelto fra fattorini ed usceri, che possono coadiuvare al servizio mensa per rendere più rapida la durata della medesima»[19].  

A ottobre lo Stabilimento fu occupato dalle maestranze, le derrate alimentari, i materiali da cucina furono sottratti. È indicativo che la lettera sia di poche righe volta solo alla comunicazione e non vi sia traccia di tono allarmato, indice che in quegli anni l’occupazione degli stabilimenti fosse molto comune, veniva soltanto chiesto il rimborso di 7.195,82 lire[20]. A novembre la mensa dello stabilimento avrebbe previsto anche il personale dello Stabilimento Elettrotecnico passando da 300 a 350 commensali[21].

 L’ingrandimento del refettorio interessò anche l’Officina Allestimento Navi – aperta nell’ottobre 1918, disponeva di tre sale-  il progressivo aumento della manodopera fece passare la mensa dell’officina, chiamata “Chalet”, da ospitare 200 commensali a «480 nelle due sale operaie e 80 nella sala impiegati». Fu reso necessario l’utilizzo del terrazzo a mare, chiudendolo alle intemperie così ingrandire uno dei due saloni operai, veniva richiesta alla Direzione inoltre una seconda cucina da annettere alla prima, per una spesa totale di 25.000 lire. I lavori di ingrandimento sarebbero stati eseguiti dagli operai del cantiere e per il materiale si sarebbe provvisto al riciclo di costruzioni cadute in disuso.

Mensa Molo Giano circa 1920

Nell’esortare la Direzione per l’avvio dei lavori venivano esposte le seguenti motivazioni «l’indiscutibile utilità tanto per le maestranze quanto per gli impiegati di trovare il mezzo di consumare la refezione nell’ora di mezzogiorno» e  ricordato «il momento difficile che attraversiamo, nonché l’esosità dei ristoranti i quali sottraggono giornalmente buona parte del guadagno dei nostri operai e impiegati»[22].

Non tutti gli stabilimenti facevano gravare sui dipendenti la spesa del pasto, infatti, in lettere anonime di ex dipendenti si può tracciare il profilo delle politiche Ansaldo in materia nel 1920. Per esempio nell’Acciaieria di Campi le spese per il pasto erano a carico dell’azienda. Nella lettera anonima firmata «un licenziato», viene denunciata la cattiva condotta del capo dei guardiani, tale «Sign. Pappagalli» che aveva il compito di distribuire il vino ai soldati e carabinieri che facevano servizio alle acciaierie (va ricordato il momento di forte tensione sociale) «il vino comperato a spese della Ditta fu invece trasportato in casa del sign. Pappagalli», mentre i dipendenti mangiavano alla trattoria «della Gina del Campasso, sempre per conto della Ditta». Anche in un’altra occasione fu segnalato il comportamento del guardiano, il Direttore aveva disposto che «ciò che vi era di bisogno per vitto, bevande ecc. si dovesse ordinare a Cornigliano», il guardiano invece lo ordinò alla trattoria Gina a Sampierdarena dove si pagava il dazio per il trasporto. L’ex dipendete commenta così «tanto Ansaldo paga!» [23]

Il quadro delineato permette di dare un nuovo punto di osservazione, stando alla ricerca della saggista Giuliana Bertagnoni le fabbriche che dispensavano il servizio mense erano poche e si affermarono soprattutto durante il regime fascista, Ansaldo seppur in stampo paternalistico denota una sensibilità alla questione operaia e più in generale per i dipendenti con l’istituzione di mense aziendali a carico dell’impresa.

La valorizzazione di una «convivialità sul lavoro» come possibilità di socializzazione, offerta dal momento del pasto collettivo, fu poi lasciata da parte durante il fascismo che auspicava alla creazione di mense rivolte a un controllo totale sul lavoratore e addossando alle aziende oneri gravosi[24]. Al termine del secondo conflitto mondiale una nuova ondata di scioperi investì il paese. Sono proprio i primi anni ’50 a rappresentare un momento storico per il movimento operaio, in particolare quello genovese[25]. Furono le maestranze genovesi già temprate da un’orgogliosa resistenza in fabbrica durante l’occupazione, tra le prime a rivendicare il neonato «diritto al lavoro», dimostrando a più riprese, in diversi episodi di lotta e autogestione, la propria volontà e il proprio attaccamento al lavoro[26].

Nonostante le aziende avessero negli anni successivi effettivamente ridotto il personale, le manifestazioni e le battaglie dei primi anni ‘50 ben rappresentano la forza, la dignità e la consapevolezza raggiunte dal movimento operaio[27]. L’etica del lavoro, il produttivismo e l’orgoglio del mestiere non erano solo immagini retoriche ma facevano parte dell’immaginario collettivo, tessevano i fili della trama culturale degli operai qualificati. È forse possibile, senza distorcere una realtà molto complessa, parlare di due componenti dominanti nella coscienza della classe operaia dell’epoca: un desiderio di ricostruzione dopo le distruzioni degli anni della guerra e una diffusa attesa di profonde riforme economiche e sociali[28]. Lo stesso mondo dell’impresa viene rivoluzionato, tra le agitazioni la fabbrica vive e si sviluppa insieme alla comunità. Sulla scia di industriali come Olivetti, le aziende compresero che il trionfo produttivo era legato al benessere degli uomini che lavoravano all’interno. Si concepisce una responsabilità sociale non solo rivolta ai propri dipendenti ma all’intera comunità.

 Le mense furono percepite come diritto acquisito, non si chiedeva più l’istituzione ma il miglioramento del locale, per esempio nel 1955 allo stabilimento di Campi furono avviati i lavori per restaurare la mensa, gli operai avevano come aspirazione il riscaldamento nell’interno delle officine e rifare la sala della mensa. Tre anni prima fu installato il riscaldamento e in quell’anno fu commissionato al pittore Cantatore un dipinto lungo due pareti, l’una nella sala a pianterreno di 20m x 4,60 e l’altra, al primo piano, di 20m x 3,50. L’artista scelse di dipingere una scena di folclore, cercando di sprigionare un senso di allegria e di comunità, la mensa doveva essere un riposo, un «bagno nella natura» per uomini che passavano tutto il giorno accanto a macchine, «chi vi assiste non può sottrarsi da quel sottile incantesimo, sia esso uomo di scienza, ingegnere, operaio o contadino, perché il cuore nel petto batte per tutti allo stesso modo. Questa è la funzione mediatrice dell’arte in seno a una società che va di giorno in giorno più meccanizzandosi». [29]

Parete realizzata da Cantatore alla mensa Ansaldo San Giorgio 1955

Se la mensa era nata con motivi paternalistici, secondo una logica imprenditoriale per cui l’operaio produce di più se i bisogni primari sono soddisfatti, dal secondo dopo guerra si afferma il principio che il pasto era un diritto e il valore della persona passava anche attraverso la mensa.

Maestranze in pausa alla mensa dellOfficina Allestimento Navi Ansaldo di molo Giano 1918 Mensa impiegati CGE ca. 1920

[1]  Felipe Fernández-Armesto, Storia del cibo, Mondadori, Milano, 2012.
[2] Giulia Bertagnoni, Cibo e lavoro. Una storia della ristorazione aziendale in Italia, in «Storia e futuro», n. 13, febbraio 2007.
[3] Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia, 2011, pp. 35-37.
[4] Vittorio Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Laterza, Bari, 2017, pp. 138-39; 159-162. Per la storia del movimento operaio cfr. Gaetano Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino, 1965; Adolfo Pepe, Movimento operaio e lotte sindacali (1880-1922), Loescher, Torino, 1926.
[5] S. Musso, Storia del lavoro in Italia, op. cit. pp. 131-133.
[6] G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, op. cit., p. 242.
[7] G. Bertagnoni, op. cit., p. 3.
[8] Le retribuzioni dei lavoratori dell’industria crebbero del 35% e un tasso maggiore lo registrarono le paghe giornaliere dei salariati agricoli circa il 50%, S. Musso, Storia del lavoro in Italia, op. cit. pp. 133-35.
[9] Luigi Tommasini, Lavoro e guerra. «La mobilitazione industriale» italiana 1915-1918, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1999; cfr. S. Musso, Storia del lavoro in Italia, op. cit. p. 137.
[10] S. Musso, Storia del lavoro, op. cit. p. 39; pp. 132-133.
[11] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n. 1808, f. 33, 25 settembre 1917.
[12] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n. 1768, f. 26, 26 novembre 1917.
[13] Ivi, 28 novembre 1917.
[14] Ivi, 14 dicembre 1917.
[15] G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, op. cit., pp.296-297.
[16] Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L'Italia dalla Grande Guerra al fascismo. 1918-1921, Torino, UTET, 2009; Charles L. Bertrand, The Biennio Rosso: Anarchists and Revolutionary Syndicalists in Italy, 1919-1920, in «Historical Reflections / Réflexions Historiques», n. 3, 1982, pp. 383–402.
[17] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n. 1347, f. 53, 13 febbraio 1920
[18] Il vantaggio del lavoro fu motivo centrale per l’istituzione del refettorio anche negli stabilimenti della Fiumara e del Savoia, un servizio che poteva rivolgersi non soltanto agli operai ma anche «agli impiegati che non fanno parte delle officine», in Ivi, 15 marzo 1920.
[19] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n. 1221, f. 3, 14 maggio 1920
[20] Ivi, 8 ottobre 1920.
[21] Ivi, 4 novembre 1920.
[22] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n.1332, f. 22, 7 maggio 1920; 28 maggio 1920.
[23] Fondazione Ansaldo, Archivio Perrone, n. 1201, 1920.
[24] G. Bertagnoni, op. cit., p. 7-8.
[25] Per il caso genovese si veda A. Gibelli, Lavoro e guerra. L’Ansaldo nella transizione, in Gabriele De Rosa (a cura di) Storia dell’Ansaldo. Dall’IRI alla guerra 1930-1945; Id, Il reclutamento di manodopera nella provincia di Genova per il lavoro in Germania (1940-1945), in «Il Movimento di liberazione in Italia», nn. 99-100, anno XXII, 1970, pp. 115-133; Alfredo Micheli, Ansaldo 1950. Etica del lavoro e lotte operaie a Genova, Einaudi, Torino, 1981; Carlo Gentile, Tedeschi in Italia. Presenza militare nell’Italia nord-occidentale 1943-1945, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e Provincia», n. 40, dicembre 1991, pp. 15-56.
[26] Sull’autogestione ai cantieri navali Ansaldo si veda Daniele Manetti, La cantieristica e le costruzioni navali, in Giorgio Mori, Storia dell’Ansaldo. Dal dopoguerra al miracolo economico 1945-1962, Laterza, 2000, Bari, pp. 117-133; Aldo Caterino, Fucina di navi. Storia del Cantiere Navale di Sestri Ponente, il Portolano, Genova, 2012, pp. 155-59; si veda anche https://fondazioneansaldo.it/index.php/6-i-nostri-archivi-ci-raccontano-2/543-volere-storia-di-un-impresa-operaia ultima consultazione 13/01/2023)
[27] Andrea Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 2006, pp. 3-22.
[28] P. Ginsborg, Storia d’Italia. op. cit., pp. 117-123; S. Musso, Storia del lavoro in Italia, op. cit. p. 209.
[29] Renzo Biasion, Colori per una mensa operaia, in «Civiltà delle Machcine», n. 5, settembre-ottobre 1955, pp. 60-63.