#Storiedaraccontare
Unico e Molteplice
Nella Fototeca della Fondazione sono conservate decine di migliaia di negativi fotografici, in molti casi accompagnati da numerose copie positive.
La natura stessa del procedimento fotografico impone di considerare il rapporto che intercorre tra l’unicità del negativo, frutto della ripresa, e la molteplicità delle stampe positive da esso derivate, frutto del lavoro in camera oscura. Per questo, in effetti, è necessario risalire alle circostanze storiche che hanno determinato la comparsa di questa nuova arte nel 1839.
Operai al lavoro, stabilimento siderurgico Oscar Sinigaglia Genova, 1959.Negativo e positivo
A cavallo tra Sette e Ottocento lo sviluppo di una nuova classe borghese, sula scorta della prima rivoluzione industriale, propizia la crescita esponenziale dell’editoria e il consolidarsi dell’importanza delle pubblicazioni periodiche ad uso e consumo di questo ceto, numericamente e socialmente sempre più rilevante, che alimenta la richiesta di giornali e riviste. Si pone così all’editoria la necessità di contare su procedimenti di riproduzione delle immagini che garantiscano tirature maggiori e costi inferiori rispetto alle tecniche a disposizione in quel momento: l’incisione e, messa a punto proprio sul chiudersi del Settecento, la litografia.
La sfida si dimostra allettante per decine di studiosi e inventori e conduce, nel 1839, alla presentazione pubblica del Dagherrotipo all’Académie des Sciences e all’Académie des Beaux-Arts di Parigi, a testimoniare, fin dai suoi esordi, la duplice natura della Fotografia: formidabile e “oggettivo” dispositivo di riproduzione della realtà ma, contemporaneamente, nuova modalità di espressione artistica.
Proprio l’invenzione di Mandè Daguerre permette di entrare nel merito del tema unico-molteplice con un paradosso: il primo procedimento fotografico della storia, punto d’arrivo degli studi per rendere più sostenibile la riproduzione di immagini, è in realtà un’immagine unica, che non può essere stampata perché su un supporto metallico e che è positiva o negativa a seconda di come la luce batte sulla sua superficie.
Il problema si risolve col procedimento positivo-negativo messo a punto nello stesso 1839 in Inghilterra da Fox-Talbot il cui uso, con i necessari aggiornamenti, è giunto praticamente inalterato nei principi fino alla comparsa della fotografia digitale.
Il procedimento positivo-negativo si basa su due momenti: la ripresa, ovvero la registrazione della realtà grazie ad un supporto trasparente reso fotosensibile, e la stampa, il momento in cui il negativo trasparente viene proiettato e la sua immagine fissata su un foglio fotosensibile ottenendo l’inversione dei toni e il prodotto finale.
Questa necessaria premessa tecnica ci permette di ragionare sul rapporto tra i prodotti di questi due momenti. Il negativo si configura come un originale nella misura in cui è l’unico oggetto fotografico che mantiene un rapporto diretto con il soggetto ritratto. Esso è l’impronta originale e unica della porzione di realtà riprodotta. Non è però un originale nel senso comune del termine poiché, per rendere comprensibile il suo messaggio, ha bisogno della stampa. I toni del negativo sono infatti invertiti, dove nella realtà abbiamo alte luci, sul negativo avremo ombre profonde e viceversa. Tali considerazioni configurano il negativo come una matrice, un prodotto intermedio di una lavorazione non ancora conclusa, uno strumento indispensabile per il lavoro del fotografo ma non il prodotto che egli consegna al committente.
Entrando più nel dettaglio delle numerose collezioni fotografiche conservate da Fondazione Ansaldo abbiamo modo di declinare il discorso sulla unicità-molteplicità anche in un senso più estetico.
Prendendo in esame il caso Ansaldo, vediamo come nei lunghi anni di attività dell’azienda, la comunicazione per immagini ha sempre rivestito un ruolo centrale. Ne è testimonianza il fatto che, a partire dal 1911, la documentazione fotografica delle produzioni viene affidata al primo laboratorio fotografico aziendale aperto presso i Cantieri Navali di Sestri Ponente. I Perrone hanno bisogno di immagini che documentino la produzione ma il messaggio deve essere sostenuto da una grande qualità estetica: ha inizio così una incessante sperimentazione sulle inquadrature che, negli anni, giunge a definire alcuni tòpoi estetici rintracciabili in molte fotografie.
Stabilimento Elettrotecnico di Cornigliano, lavorazione di statori, 1922
Una delle più interessanti linee di ricerca riguarda per l’appunto la produzione seriale. L’intento è mostrare l’efficienza produttiva allineando decine di pezzi prodotti in bell’ordine ma l’estro di alcuni fotografi trasforma il tema conferendo valori estetici che travalicano le intenzioni didascaliche da cui si era partiti.
L’infilata prospettica di statori ripresi frontalmente mostra chiaramente i pezzi prodotti ma si intuisce una volontà ulteriore, che confina con suggestioni astratte: quei cerchi concentrici si trasformano così nei nostri occhi in composizioni di forme e campiture di varie tonalità di grigio che rendono quasi superfluo il rapporto stretto col soggetto rappresentato e rimandano ad esperienze decorative nelle quali contano i rapporti interni all’immagine: vuoti e pieni, chiari e scuri, linee spezzate o curve.
Nel secondo dopoguerra il progresso nella ricerca estetica è sostenuto dallo sviluppo delle riviste aziendali e l’ingresso nella società dei consumi è il contesto ideale per approfondire il ragionamento sulla molteplicità: immagini seriali di produzioni seriali.
Esempio eloquente, l’immagine della facciata di una palazzina Ina-Casa a Cornigliano che nel taglio stretto, decontestualizzato, sembra affermare esplicitamente l’abbandono della corrispondenza col soggetto, così come la fotografia degli interruttori CGE, che crea nell’osservatore l’impressione di guardare una trama decorativa astratta.
Articolare facciata complesso INA-Casa Cornigliano SpA-Pra
Fondazione Ansaldo
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