Gennaro Perna, classe 1945, attraverso la penna di Michele Di Luca, ci racconta una storia di mare, una storia vecchia come il mondo, come la storia dei marinari di Torre del Greco, fatta di valore e coraggio.

Un’onda anomala colpì la Michelangelo durante una traversata nell’aprile del 1966. La forza della natura ricorda così all’uomo le sue capacità e, purtroppo, la sua violenza. Ma l’uomo risponde con altrettanta forza e tempra morale.

Il raccontare serve a tramandare le conoscenze, il saper fare, a mantenere vivo ciò che è stato e trasmettere di generazione in generazione i valori di una società in continuo sviluppo. Pertanto Fondazione Ansaldo raccoglie i ricordi di uomini coraggiosi e di grandi imprese.

Oggi salpiamo insieme per una nuova avventura nel mare dei ricordi… Buona lettura!

 

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Torre del Greco città del corallo e dei fiori, così recita la targa posta all’ingresso della cittadina alle falde del Vesuvio, e non è solo questo che la caratterizza bensì è anche, e soprattutto, luogo di forte tradizione marinara che si perde nella notte dei tempi. Basti pensare che i Borbone la chiamavano “la spugna d’oro del Regno delle due Sicilie” per le numerose barche coralline che si spingevano fino alle coste africane per la pesca del corallo, chiamato anche oro rosso.

La tradizione marinara torrese famosa sia nel settore armatoriale che in quello del personale navigante, si è sempre distinta nel mondo dove con alterne vicende i suoi marinai sono stati artefici e spettatori di tante avventure liete e tristi, in pace come in guerra, quando l’andar per mare era una vera e propria avventura su legni rudimentali e tutto era affidato alla perizia dell’equipaggio e alla conoscenza degli elementi che li circondavano. Per fortuna col passar degli anni la tecnologia ha fatto passi da gigante anche nel settore della navigazione e della cantieristica varando navi sempre più grandi e confortevoli chiamate appunto transatlantici come Rex, Conte di Savoia, Michelangelo e Raffaello, orgoglio della cantieristica e della marineria italiana.

Purtroppo questo patrimonio di avventure e di conoscenze spesso non raccolto per tramandarne la memoria alle future generazioni inesorabilmente cadrebbe nell’oblio se non ci fossero delle istituzioni come la Fondazione Ansaldo che recupera documentazione e storie per accrescere e custodire il bagaglio di conoscenze.

A proposito di ricordi vogliamo parlare della turbonave Michelangelo ed esattamente “dell’onda anomala” del 12 aprile 1966.

Quella mattina… qui comincia il racconto veemente e pieno di commozione di Gennaro Perna, classe 1945 matricola 38741 del libretto di navigazione, torrese verace, imbarcato sulla Michelangelo dal 4 febbraio 1966 in qualità di Giovanotto di II^.

…La Michelangelo navigava alla volta di New York con mare in burrasca… la furia degli elementi stava colpendo la nave procurando notevoli sollecitazioni allo scafo e facendo letteralmente scoperchiare alcune prese d’aria poste sul ponte di prua per le quali necessitava l’urgenza di ricoprirle al fine di evitare ulteriori seri danni.  Il Comandante in seconda Claudio Cosulich radunò gli uomini di coperta alla ricerca di quattro volontari per riparare il danno. Senza esitazione Gennaro Perna, pur consapevole del pericolo che incombeva, si offrì insieme ad altri tre tra cui il marinaio torrese Lama Biagio per richiudere “i funghi” ossia le prese d’aria portate via in precedenza dalle onde.

Qui il racconto del Perna si carica ancor più di emozione in quanto rivive gli attimi concitati di quando viene imbracato con una fune trattenuta dal Cosulich ed altri e si portò sulla prua estrema della Michelangelo per effettuare l’intervento di copertura indispensabile alla sicurezza della nave. Quell’operazione risultò un mix di senso del dovere, rischio incalcolato ed un pizzico di fortuna basti pensare quello che accadde di lì a poco con la cosiddetta onda “anomala” che investì in pieno la prua, il ponte di comando ed alcune cabine, provocando decine di feriti, alcuni morti, e lo stesso ufficiale Cosulich riportò alcune fratture agli arti. Se “l’onda” distruttiva si fosse verificata durante l’operazione i “volontari” sarebbero sicuramente stati tutti spazzati via fuori bordo con risultato facilmente deducibile.

I feriti vennero curati a bordo ed una parte di essi anche con l’ausilio di una nave della marina militare americana che fornì ulteriore assistenza mentre la turbonave riprendeva la rotta per New York. Ma Gennaro Perna non esaurì la sua attività straordinaria difatti qualche giorno dopo sempre volontario fu impegnato nell’operazione di trasbordo di un marinaio feritosi gravemente agli arti inferiori tale Mario Bianchini. La gravità delle ferite riportate necessitavano di un ricovero urgente presso una struttura a terra perciò fu disposto l’invio di un elicottero della guardia costiera americana per portare il ferito a terra. Per questa delicata quanto pericolosa operazione, soprattutto per l’epoca, il Perna fu dotato di stivali, tuta e guanti di gomma a protezione dell’enorme carica elettrostatica generata dall’elicottero, il cui cavo utilizzato per issare il ferito sul velivolo poteva provocare una folgorazione elettrica. Tutto andò per il meglio ed anche questo intervento fu archiviato nel libro dei ricordi.

Oggi Gennaro Perna che da molto tempo ha lasciato il mare, ha dismesso i panni di marinaio ma non dimentico nel cuore e nella mente resta sempre il marinaio descritto da Lucio Dalla.

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La scalinata di Boccadasse è stata intitolata il 26 luglio 2021 a Piero Calamai, Comandante dell’Andrea Doria, quale compimento di un percorso di riconosciuta serenità, ancorché postuma dopo un lungo doloroso silenzio. Ancora oggi, dopo 65 anni, si dibatte sulla sua responsabilità nel naufragio del bel transatlantico.

Piero Calamai non è stato un uomo qualsiasi. Eugenio Giannini, terzo ufficiale del Transatlantico in quella fatidica notte del 25 luglio 1956, sempre giovane nello spirito ma sofferente nel ricordo, non ha dubbi: difende senza sé e senza ma il suo Comandante, ne onora la memoria e il suo comportamento da leader, non voleva abbandonare la nave: lo costrinsero.

Non è compito della Fondazione così come dello storico, stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Riportare fonti, rilevare testimonianze o dati, ecco, uno tra i compiti della Fondazione Ansaldo. Non possiamo esimerci, quindi, dal riportare la testimonianza scritta di Giannini. Un ricordo vivo, carico di emozioni, oramai lontano nel tempo ma che è invece ancora oggi così vicino.

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Piero Calamai a bordo dell’Andrea Doria

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Padova, 10 settembre 2021

Egregio Dott. Fiori,

le invio un breve ricordo del Comandante dell’Andrea Doria, il Capitano superiore di Lungo Corso, Piero Calamai; il mio Comandante.
Dire di quel grande uomo che fu Piero Calamai nel breve spazio di una pagina dattiloscritta è stata cosa ardua a compiere. Ho fatto del mio meglio e spero di esserci riuscito.
Allego un dépliant a fumetti, da me eseguito in ricordo della tragica vicenda.

                                    Cordiali saluti

    firma

RICORDO DI PIERO CALAMAI – IL COMANDANTE DELL’ANDREA DORIA

Quando si parla o si scrive dell’Andrea Doria o del suo Comandante, il Capitano superiore di Lungo Corso Piero Calamai, qualcuno che ha qualcosa da dire e da ridire, si trova sempre.  Accade spesso che, coloro che parlano o scrivono dell’Andrea Doria o del suo Comandante, lo fanno senza cognizioni di causa. Purtroppo così va il mondo!

Piero Calamai aveva un modo di fare, un comportamento calmo e sereno. Non ho mai sentito il Comandante Calamai alzare la voce. Aveva fiducia nei suoi ufficiali ma, in particolari, difficili condizioni di navigazione, il suo senso della responsabilità era altissimo. Anche in caso di nebbia non delegava il comandante in seconda ma sopraintendeva personalmente alla navigazione senza interferire nei confronti dell’ufficiale capoguardia ma dandogli il conforto della sua presenza sul ponte di comando. Anche la sera della tragedia, quando montai di guardia alle 20.00, lo trovai sul ponte di comando; in disparte, consumava una cena frugale e allorché, verso le 22.00, il Comandante in seconda Osvaldo Magagnini si offrì di sostituirlo, rifiutò, gentilmente, ma rifiutò.

Anche dal punto di vista umano, Piero Calamai, era un uomo eccezionale; una volta mi ha chiesto notizie delle mie origini e della mia famiglia; nessun’altro comandante l’ha fatto.

Piero Calamai era stato anche un uomo coraggioso, sia in tempo di guerra che di pace, le sue mostrine ne attestavano la carriera ed il coraggio. In gioventù aveva salvato, gettandosi in mare, un uomo che stava per annegare.

Che dire ancora di Piero Calamai? Ero di guardia, accanto a lui, sull’aletta di dritta del ponte di comando dell’Andrea Doria, quella fatale notte del 25/26 luglio 1956 quando la Stockholm ci puntò la prua contro e ci speronò, provocando l’affondamento della sua splendida nave: l’Andra Doria.

Lo ricordo ancora, le braccia allargate sul corrimano dell’aletta di dritta, per sorreggersi. Sembrava voler respingere la Stockholm con la forza della disperazione. Purtroppo non ci riuscì.

Questo è stato Piero Calamai: un uomo eccezionale. Un grande comandante. Il mio Comandante.

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di Elena Bagnasco.

Attraverso i ricordi, tramandati di madre in figlia e non solo, oggi vogliamo celebrare una storia che fa parte di Genova: quella della Guzzi.

Il genovese Giorgio Parodi fondò il marchio esattamente 100 anni fa, il 15 marzo 1921 insieme al padre Emanuele Vittorio e altri tre firmatari, tra cui Carlo Guzzi, rappresentato all’atto da Giorgio.

Durante la prima guerra mondiale Giorgio, abile imprenditore, Carlo, meccanico geniale e Giovanni, pilota straordinario, idearono la vision di una motocicletta innovativa e mai vista prima che ancora oggi ci fa volare.

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Quando per un fortunato caso ho iniziato l’avventura che mi sta portando alle celebrazioni del Centenario della fondazione della famosa motocicletta dell’aquila dorata, proprio in ricordo del suo fondatore genovese Giorgio Parodi, non immaginavo certo che mi sarei addentrata così tanto nell’anima e nei valori di un nonno che non ho mai conosciuto in prima persona, ma solo attraverso i racconti di mamma, spesso ancora offuscati dal dispiacere per una perdita precoce.

Il mio ringraziamento va a tutte le persone che mi hanno aiutata nella non sempre facile ricostruzione storica e che stanno rendendo possibile il sogno di una nipote che ha imparato a guardare il nonno con gli occhi di una bambina incantata davanti ad un libro di fiabe.

Chi era Giorgio Parodi? Che cosa pensava? Quali erano i suoi valori?

Partiamo da un po’ più lontano, capostipite della famiglia fu Angelo Parodi, fondatore del Tonno Angelo Parodi; a lui dobbiamo l’invenzione del metodo per conservare il pesce in scatola. Fu nominato Cavaliere del Lavoro, come poi fu anche il figlio Emanuele Vittorio Parodi, a Genova conosciuto come “u sciù Parodi” più volte citato nelle commedie di Gilberto Govi; insieme diedero origine alla più grande flotta di navi italiana dell’epoca, di cui ancora oggi Ponte Parodi ne porta testimonianza.

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Curiosamente l’aquila fu scelta come simbolo per i prodotti ittici, proprio come fece Giorgio successivamente per le motociclette, anche se per altri motivi.

Giorgio nacque e crebbe in una famiglia di imprenditori di spesso calibro con grande intuito per gli affari, nonno e padre dotati di intelligenza viva e particolari capacità che li portarono a non avere rivali nel loro settore.

Giorgio, oggi da me affettuosamente ricordato come GP, figlio prediletto di Emanuele Vittorio (in famiglia chiamato Manuelin) ereditò tutte queste caratteristiche unite ad un carattere forte e carismatico, generoso ed altruista; restò sempre schivo da ogni esibizionismo e tenace realizzatore di opere.

Nonno Giorgio fu cittadino esemplare, coraggioso pilota e grande imprenditore; un uomo tutto d’un pezzo, come ancora oggi si ricorda. I pilastri della sua vita furono Patria, lavoro, famiglia e Dio. Ebbe un profondo senso del dovere da compiere, propenso per la vita austera, non si sottrasse mai a quanto andava fatto, incurante del rischio da affrontare. Valori solidi, che ancora oggi ritroviamo nella nostra Aeronautica Militare.

Disattendendo le speranze paterne che lo volevano da subito a dirigere le attività della famiglia, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, falsificò i documenti, poiché ancora minorenne, e si arruolò volontario a Venezia.

Pur avendo l’stinto del cacciatore, in linea con il suo carattere discreto e lontano dai riflettori, scelse il nome di battaglia “Lattuga”, comune e semplice vegetale, con il quale in breve tempo divenne famoso per le sue imprese eroiche.

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Fu proprio durante la guerra, all’Idroscalo di Venezia, che Giovanni Ravelli, un compagno d’armi, pilota come lui, gli presentò un meccanico, Carlo Guzzi, che diventò suo motorista di aereo.

Giorgio riconobbe subito la genialità delle idee Carlo, che allo scoppio della Grande Guerra lavorava per la Isotta Fraschini; con Giovanni, invece, condivideva la passione per la velocità, gli aerei e le moto; dall’incontro di quelle tre persone, completamente diverse tra loro, nacque la “vision” di una motocicletta nuova, qualcosa che non si era mai visto, assolutamente innovativa per il periodo.

La squadra, quindi, prevedeva Carlo, il meccanico progettista, Giorgio che si sarebbe occupato della parte imprenditoriale e Giovanni il collaudatore.

Non sappiamo con certezza dove e quando sia stato realizzato il primo prototipo, sappiamo invece per certo che l’idea piacque tanto a Giorgio da chiedere un appoggio al padre per industrializzarla: ancora oggi fa bella mostra di sé, appesa alle pareti del Museo di Mandello del Lario, la lettera incorniciata del padre Emanuele Vittorio in risposta alla richiesta del figlio, di cui citiamo una parte:

“Sull’altro argomento ho poco da dirti, propendo per natura ad incoraggiare ogni iniziativa, non sarò certo io che mi opporrò all’esperimento di cui mi parli. Però non posso neanche con te spogliarmi della mia qualità di industriale e di uomo che deve valutare la cosa anche sotto l’aspetto pratico. Per conseguenza tu dovresti non dire che hai un capitale proprio, bensì dichiarare che ricorri a me per fornirlo, dandomi così il diritto di intervenire per discutere, vagliare e sindacare, prima che la cosa sia definitivamente stabilita. Anche se tecnicamente sono poco più di un asino, tuttavia mi sento in grado di poter dare un giudizio abbastanza competente e pratico sulla convenienza e sulla probabilità di successo di una simile impresa. La risposta che dovresti dare ai tuoi compagni è che io sono favorevole in massima, che le 1500 o 2000 lire per l’esperimento sono a tua disposizione, a condizione che la cifra non sia assolutamente sorpassata, ma che mi riservo di esaminare personalmente il progetto, e prima di assicurare il mio appoggio definitivo per lanciare seriamente il prodotto. Chè se per fortunata ipotesi esso mi piacesse sono disposto ad andare molto avanti senza limitazione di cifre.”

Iniziò così la grande avventura della Moto Guzzi, purtroppo l’amico Giovanni morì in un incidente di volo poco prima della presentazione ufficiale del primo prototipo, la GP, Guzzi-Parodi, esposta in bacheca nel Museo di Mandello del Lario.

In ricordo dell’amico pilota, Giorgio scelse l’aquila ad ali spiegate della loro divisa da apporre sui serbatoi, ancora oggi simbolo distintivo di tutti i piloti militari e civili. Furono sempre il carattere discreto e signorile, la sua grande generosità e onestà intellettuale che lo portarono a decidere di non chiamare GP le motociclette prodotte, perché anche iniziali del suo nome, lasciando così a Guzzi tutto l’onore del marchio; a differenza di quanto ritenuto da molti, Carlo Guzzi restò sempre un “dipendente di lusso” seppur con incarichi importanti nell’azienda della Famiglia Parodi.

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 Il 15 Marzo 1921 fu fondata a Genova la prima “ Società Anonima Moto Guzzi” con capitale proveniente dalla famiglia Parodi, azionista di maggioranza e primo presidente fu Emanuele Vittorio, Giorgio dopo poco tempo diventò vice presidente, Carlo Guzzi, rappresentato da Giorgio al momento della firma poiché assente, fu nominato amministratore delegato insieme ad un altro Parodi, Angelo (figlio di un fratello di Emanuele), quinto firmatario Gaetano Belviglieri, uomo di fiducia dei Parodi.

Negli anni furono voluti e fatti da Manuelin e Giorgio investimenti di centinaia di milioni dell’epoca per essere all’avanguardia nella produzione; in azienda si trovavano macchine automatiche a ciclo continuo (alcune progettate appositamente in Svizzera) e centrali elettriche, la sede legale genovese era collegata via ponte radio con lo stabilimento avviato a Mandello del Lario, una vera rarità per il tempo.

Ma GP non si fermò, fedele al suo carattere tumultuoso, oltre alle attività di famiglia, armatoriale e motociclistica, nel 1928 fondò insieme al fratello e Giorgio Profumo, l’attuale Aeroclub di Genova, sua pupilla fu l’imbattuta Carina Negrone, a lui è dedicata la scuola di volo genovese.

Già plurimedagliato, partecipò alla Guerra d’Etiopia e la Seconda Guerra Mondiale lo vide in prima linea.

Grazie ai racconti di Angelo Balzarotti, figlio di Ferdinando, celebre pilota della Moto Guzzi, si possono ripercorrere quelle difficili giornate per non far bombardare lo stabilimento. Nel cuore della notte, Ferdinando portava Giorgio da Mandello a Torino e Roma per fare accordi con gli alleati. Lui davanti e il nonno dietro. In sella ad un “Condor”, Giorgio sfinito dalla stanchezza infilava le mani in tasca a Ferdinando e gli diceva: “Corri Ferdinando, veloce, più veloce.” La risposta del pilota era: “Non posso Dott. Giorgio, non vedo, siamo schermati.” La risposta coraggiosa era sempre: “Togli tutto Ferdinando, leva la schermatura.” Dopodiché, stremato dalla stanchezza, si addormentava sulla spalla del suo pilota. Fu così che la Moto Guzzi non fu bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale.

Fu proprio durante quest’ultima che ebbe un grave incidente, un motore esploso in volo gli costò la perdita di un occhio, ma sopportando il dolore e tacendo ai compagni, li portò in sicurezza.

Celebre di lui la frase: “Meno male che è capitato a me che ho i soldi per curarmi”.

Con un occhio di meno, il viso sfigurato dalle cicatrici ed un braccio semiparalizzato, il Capitano Giorgio Parodi fu costretto a dire addio al volo, dopo aver ottenuto 5 medaglie d’argento e una di bronzo.

Atterrato definitivamente a Genova, nonno decise di dedicarsi completamente al lavoro e alla famiglia, che nel frattempo era cresciuta.

Nel 1937 sposò la Contessina Elena Cais di Pierlas, grande amore della sua vita, dalla quale ebbe 3 figli, 2 maschi Andrea e Roberto, mancati entrambi in giovane età in gravi incidenti d’auto, e Marina, la mia mamma, unica figlia ancora in vita di GP.

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Sono in pochi a sapere che anche lei ebbe un ruolo nella storia della Moto Guzzi, a partire da un certo periodo molti modelli furono chiamati con il nome di un volatile: Falcone, Galletto, Zigolo. In tanti pensano che sia la normale conseguenza della scelta iniziale dell’aquila, in realtà questi nomi furono scelti da lei, un tocco femminile in una fabbrica che sfornava motociclette come “Normale” o “Norge”.

La nonna Elena, purtroppo si ammalò gravemente, un male incurabile e nel 1954 mancò prematuramente. Dopo tante battaglie combattute e vinte, questa fu fatale al Nonno, distrutto dal dolore, ebbe un attacco cardiaco il 18 Agosto 1955, giorno di Sant’Elena Imperatrice, un anno dopo la scomparsa di lei, lasciando 3 figli minori.

Oggi, a distanza di molto tempo, mi ritrovo a parlare nuovamente delle aquile dei Parodi, orgogliosa di poter raccontare la storia di un uomo chiamato “Lattuga”.

Voglio chiudere queste poche righe con una frase presa dal testamento spirituale di GP per i figli, parole che in un momento di incertezza e difficoltà come quello che stiamo vivendo, dovrebbero essere luce nell’oscurità di un’epoca dominata da valori appannati.

“Preoccupatevi degli interessi del nostro Paese più che del vostro. Non circondatevi di troppi agi, non sottraetevi al servizio militare né al pagamento delle tasse, siate indulgenti gli altri e severi con voi stessi.”

di Cesare Augusto Giannoni.

Spesso da adulti ci si dimentica di quanto possa essere forte il senso di desiderio in un bambino, ma ci si ricorda, magari con un po’ di nostalgia, com’era invece la sensazione di fermarsi a guardare una vetrina sognando ad occhi aperti davanti all’oggetto bramato.

Questa storia, che rievoca emozioni passate, ci racconta di come un sogno sia poi diventato realtà.

 

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L’amore per la Guzzi ha origini antiche che risalgono a quando, ancora bambino, andavo di nascosto nel garage della caserma dei Carabinieri dove vivevo con mio padre ufficiale per guardare, toccare ed a volte salire sulle V7 in dotazione all’Arma. Era sempre una emozione vedere i Carabinieri con casco, guanti, giubbotti in pelle e stivaloni, parevano cavalieri medioevali sui loro destrieri, accendere i motori che rimbombavano nel chiuso del locale e partire verso chissà quali ignote missioni.

La passione per la casa dell’Aquila mi è rimasta nel cuore e finalmente dopo quasi quarant’anni sono riuscito a chiudere il cerchio aperto da bambino. Qualche anno fa è uscito il nuovo modello di V7 che ricordava l’originale nel nome e vagamente nelle forme, si tratta di una moto più piccola della progenitrice degli anni 60/70 che nella memoria della mia infanzia aveva dimensioni enormi. Il fascino però è intatto, i cilindri a V trasversali che spuntano lateralmente sono sempre loro e nella visione frontale le donano una silhouette unica ed inconfondibile che la rendono riconoscibile al primo sguardo e solleticano la fantasia verso viaggi ed avventure solitarie. Uso solitamente moto adatte a lunghi viaggi con bagagli e passeggero ma l’attrazione è stata troppo forte e quindi con poca testa e tanto cuore ho deciso che dovevo averne una, mi sono orientato sul classico: una Special azzurra con strisce bianche, ruote a raggi e borse laterali in pelle.

Il giorno del ritiro ero emozionato come un bambino di cinquanta primavere, mentre il venditore mi spiegava gli ultimi dettagli non avevo occhi che per lei e speravo che finisse presto per avere le chiavi in mano. Finalmente in sella avvio lo starter e ritrovo suoni sopiti e mai dimenticati, il borbottio del motore al minimo ricorda il battito regolare del cuore al quale punta direttamente come la freccia di Cupido, metto la prima e la moto parte sprigionando una gaiezza contagiosa che cresce mentre sgrano tutte le marce in sequenza: è tutto come l’avevo immaginato, le maschie vibrazioni del motore trasmettono vita, il pulsare costante dei cilindri penetra sottopelle facendomi sentire una cosa sola con il mezzo e dona una sensazione di pace e libertà che solo chi usa una moto può conoscere.

Decido di spostarmi in quelli che sono i suoi territori preferiti lontano dal traffico e dal caos della città, ci vuole il luogo giusto per vivere pienamente questa nuova esperienza e le colline delle Langhe mi sembrano proprio il posto adatto. Rapido trasferimento su strade poco trafficate tra risaie allagate e prati coltivati, attraversamento di Casale Monferrato e salita verso le colline. Ora è nel suo ambiente naturale, il rumore del motore è l’unico suono che sento dentro il casco, la moto si muove tra le curve come una danzatrice provetta e trasmette emozioni difficili da dire. La striscia d’asfalto scorre sotto le ruote e sembra non debba mai finire, una sosta in cima ad un colle e lo sguardo può perdersi verso l’orizzonte infinito fatto di pregiati vitigni dai quali si trae un nettare che oggi mi è vietato perché la giornata è dedicata alla guida.

La V7 mi guarda sorniona, mi invita a ripartire ed io obbedisco salgo in sella premo il bottone dell’accensione, indosso casco, guanti e riparto. Il cielo azzurro illumina la strada e si sente il tepore del sole primaverile, il tempo passa veloce ed è già l’ora del rientro, mi godo gli ultimi chilometri che mi separano dal box. Siamo arrivati a casa, la parcheggio e guardo nuovamente la mia nuova amica che sembra sorridere felice, sento il crepitio dell’olio che scende nella coppa ancora calda e mi rendo conto che ha un’anima, sembra un cavallo che sbuffa dopo una corsa.

Il tempo non è mai passato mi sento ancora il bambino che sognava viaggi ed avventure ora finalmente possibili, la saluto accarezzando il sellino e vado via contento pensando all’itinerario del prossimo giro. Dentro me gioisco sapendo che lei è lì pronta a donarmi emozioni, devo solo aspettare la prossima uscita.

 

di Lorenzo Fiori e Davide Trabucco.

Ci sono uomini destinati a segnare un’epoca, a lasciare un segno tangibile nella storia nonostante il tempo normalmente ne sbiadisca lentamente il ricordo: dopo 113 anni Leonardo Sinisgalli è tra quegli uomini, ancora “vivissimo e attualissimo” tra noi con il suo pensiero, il suo esempio e la sua creazione, Civiltà delle Macchine! Un esempio innovativo e prezioso per la società, soprattutto per le nuove generazioni proiettandole nel futuro con quel suo modo di pensare ed agire davvero unico. 

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Leonardo Sinisgalli ha vissuto due vite, e forse più di due. Forse sta vivendo ancora oggi e non lo sappiamo, forse si è reincarnato nella sua “creatura”, forse il suo esempio è così profondo da aver segnato una, due, tre generazioni… Due vite come due teste, Leonardo Sinisgalli era questo. Come se due persone diverse condividessero lo stesso corpo; il Leonardo Sinisgalli 1 era matematico, ingegnere, grafico, un rappresentante della cultura scientifica a tutto tondo; il Leonardo Sinisgalli 2 era poeta, letterato, scrittore, un brillante umanista sulla scia degli intellettuali del suo tempo, come il suo amico ed estimatore Giuseppe Ungaretti.  

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Chi era quindi Leonardo Sinisgalli? Qualcuno lo ha definito il “Leonardo del Novecento”, qualcuno il “poeta ingegnere”. La verità è che Sinisgalli era una personalità di una sensibilità unica, espressione di tali desideri da non trovare piena soddisfazione in un unico campo, che fosse quello scientifico, umanistico o industriale. La sua mente correva più di quella degli altri, non sprecava tempo in pastoie equivoche, non si crogiolava sulla sicurezza della sua conoscenza contrapponendola, come ahimè spesso succede anche oggi, ai depositari di questo o di quel sapere.

Sinisgalli aveva capito. Aveva capito che i mali dell’uomo nascono dalle contrapposizioni, dalle rivalità che non riguardano solamente la politica, riguardano anche la cultura. Come si garantisce il progresso se gli “attori protagonisti” si combattono anziché confrontarsi? E come si cresce se il sapere è leggere soltanto i social invece di studiare e approfondire? Caspita la conoscenza oggi grazie alle tecnologie digitali-informatiche è alla portata di tutti ma va letta, meditata e metabolizzata, ai tempi di Sinisgalli non era così disponibile!

Leonardo Sinisgalli studiava, approfondiva e rifletteva; il trauma della guerra aveva segnato lui e quelli della sua generazione. Come impiegare la conoscenza in maniera costruttiva per il bene dell’umanità? La storia insegna. Leonardo, maggior esponente del Rinascimento, ricordato per il suo eclettismo, per il suo pensiero libero, fulgido esempio di un’Italia che seppur non unita, univa l’Europa grazie al genio e alla bellezza. Diderot e D’Alambert e quell’Encyclopedie, opera monumentale, con il contributo di quegli uomini, da Voltaire a Montesquieu, che lottarono contro l’oscurantismo, per un mondo libero, per un progresso che avrebbe comportato benefici a tutta l’umanità.

Sinisgalli ben conosceva questi esempi. Ben intendeva quali vantaggi avrebbe comportato il “sapere unico”, cioè la fusione sinergica tra le culture umanistica e scientifica sulla scia dei grandi del passato e delle loro scuole. Il “poeta-ingegnere” era cosciente del suo compito e non si illudeva, pazientava, seminava lasciando attecchire, preparava il terreno per un futuro brillante. Utopia? Sì e no. Sì, se consideriamo che quel percorso si è a tratti interrotto, no se pensiamo che l’eredità sinisgalliana vive oggi più che mai. Come? Grazie a tante iniziative che lo ricordano riprendendo quell’esempio che credeva in un futuro diverso e migliore non soltanto per questo paese.

Sinisgalli e i giovani

Da dove ripartire? Dai giovani. Oggi come allora. Il linguaggio di Sinisgalli parlava ai fanciulli, li coinvolgeva: e fabbriche diventano occasione per fare scuola (e la scuola era il suo ambiente naturale; la cultura industriale entra nelle case e trasforma quel mondo rurale, che vive di tradizioni ma, da quel momento, con un occhio anche al progresso. Metafora di un’Italia conservatrice e innovatrice allo stesso tempo, non indebolita ma rafforzata dalla sua storia, unità di passato e presente. Il futuro non deve farci paura, ma deve diventare un’occasione per riproporci con rinnovato vigore nel panorama internazionale, con le nostre menti, le nostre peculiarità, la nostra identità culturale.

La speranza riposta nelle nuove generazioni, il sapere unico, il coinvolgimento di tutti sono sempre temi attuali, ancora dibattuti nonostante siano passati anni… tanti, tanti anni.

Oggi i suoi figli, i suoi nipoti, sono cresciuti e portano avanti la sua eredità! Una sola cultura, un paese libero e progredito, guida dell’Europa unita, dalla prima Civiltà delle Macchine alla nuova Civiltà delle Macchine (rieditata da Fondazione Leonardo dal 2019) nel segno di Leonardo Sinisgalli!

Buon compleanno ingegnere, grande pensatore!

Risorgerò fra tre anni o tre secoli tra raffiche di grandine nel mese di giugno.

Leonardo Sinisgalli, 9 marzo 1908 – 31 gennaio 1981