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Minima Memoria: uno sguardo “di parte” sulla storia dell’imprenditoria genovese
di Maria Dufour
Dufour, basta questo semplice nome per risvegliare in tutti noi ricordi pieni di dolcezza, ma dietro al mondo delle caramelle c’è la storia di una grande famiglia e di una grande impresa ligure, tramandata di generazione in generazione e che oggi ci viene raccontata da Maria Dufour, professoressa di Storia e Filosofia.
Le memorie archivistiche Dufour, che fanno parte del patrimonio della nostra Fondazione dal 1998, hanno origine con il trasferimento nel 1829 a Genova di Lorenzo II, che aprì a Sampierdarena una raffineria di zucchero. Atto di nascita di un mito per grandi e piccini.
Leggerlo è comprendere quanto gli archivi siano quella “fabbrica della memoria”, dinamicamente attuale, dove la materia custodita prende forma, disvelando suggestioni, emozioni e valori che vivono oltre il tempo.
Buona lettura.
Le radici, la storia, l’identità, il patrimonio culturale e quello materiale accumulati negli anni… Perché ci occupiamo di memoria storica? Perché siamo spinti ad addentrarci nelle pieghe di un passato che sembra ormai così lontano? Ognuno di noi, se solo si ferma a scandagliare le vicende che hanno dato forma alla propria vita, si accorge che sono iscritte in una trama più ampia dove la nostra memoria minima si raccorda ad altre memorie minime di chi ci ha accompagnato o preceduto per un tratto di strada. E l’insieme di queste striscioline individuali intrise di pathos, che ognuno porta con sé, colora l’affresco della vita collettiva. Che invece appare sbiadito allo sguardo di colui che si traveste nei panni di un freddo osservatore.
Per chi si trovi a riflettere sulla dialettica passato-presente è facile andare a imbattersi nella II Considerazione inattuale di Nietzsche “Sull’utilità e il danno della storia”. E restarne sgomenti per la sua clamorosa e ambigua attualità. Già con più di un secolo di anticipo sui nostri tempi Nietzsche aveva denunciato il rischio che un eccesso di memoria storica porta con sé così che “il sapere che viene raccolto a dismisura senza fame, anzi contro il bisogno, ora non agisce più come motivo trasformatore ed incalzante verso l’esterno, ma rimane nascosto”1. Magistralmente viene dipinta la personalità debole dell’uomo moderno schiacciato dal senso storico come colui che si trascina dietro una massa enorme di indigeribili pietre del sapere. In un mondo che è anche il nostro, senza fame e senza desideri capaci di produrre qualcosa di più di una piccola increspatura di superficie, la potenza del confronto tra storia e vita rimane in sordina, schiacciato dall’enfasi passatista della nostalgia o dal frenetico richiamo del presente.
Memoria e oblio, come già apollineo e dionisiaco, rimandano però a un fondo comune da cui germinano incessantemente. È la vita con le sue spinte potenti e le sue esigenze dispotiche il crinale che determina l’utilità o il danno della storia, che ne orienta il significato e le pretese. È difficile sottrarci al fascino soggiogante della storia antiquaria. Più difficile ancora coltivare quel sentimento di gratitudine verso la propria esistenza che dispone a un amorevole volgersi indietro per raccogliere e custodire ciò da cui proveniamo.
Sentivo il bisogno di premettere questa cornice introduttiva ma in realtà mi accorgo di trovarmi già catapultata in medias res, cioè nel cuore e nello spirito della Fondazione Ansaldo. I documenti custoditi e catalogati acquistano nuova vita quando sono reclamati dalla realtà circostante, da un contesto produttivo e sociale desideroso di prendere la rincorsa dal passato per slanciarsi verso nuovi traguardi. Così come la vocazione imprenditoriale di Genova può ritrovare lucidità e spirito creativo se viene introdotta ed educata a una maggiore familiarità con la propria storia.
Stride il contrasto tra le glorie passate di questa signora un po’ agée ma sempre ricca di seduzione e un presente che arranca a fatica tra tanti ostacoli da scansare. Il fil rouge, che raccorda in qualche modo la leggendaria età dell’oro dell’industria genovese, agli albori dell’unità d’Italia, con la situazione problematica, travagliata di oggi è difficile da districare. Eppure non ci sono scorciatoie: se vogliamo capire dove ci troviamo e far sì che le scelte economiche e politiche abbiano una ricaduta positiva sulla nostra amata città, bisogna risvegliare la memoria storica e, ripercorrendo gli andamenti economici e il clima culturale, capire sempre meglio cosa è successo. Integrare gli archivi aziendali con quelli famigliari, far dialogare la più ampia memoria collettiva con la memoria individuale.2 Questo è il senso delle vicende che a titolo puramente esemplificativo andrò a raccontare.
Ho sempre respirato fin da bambina, assieme all’odore intenso e inebriante del cuoio, la sensazione fisica di vivere in una città industriale e di appartenere a una famiglia geneticamente orientata a intraprendere e in qualche modo a considerare questa sua attività come naturale espressione di un dovere civico e religioso. L’adesione convinta e profonda a un cristianesimo vissuto fin nelle più intime fibre come senso autentico dell’esistenza e fondamento di una vita sociale rivolta al bene di tutti e di ciascuno, rappresenta una componente essenziale che dà il tono anche all’organizzazione di fabbrica e al rapporto con gli operai, che spiega l’interessamento per le questioni sociali e la partecipazione alle realtà aggregative laiche e religiose. All’interno della visione cristiana del mondo trovano il loro armonico spazio la curiosità scientifica, la sensibilità per il bello e il gusto per la cultura. Non si riesce a decifrare l’attività industriale di papà, nonni e bisnonni se non si osservano in controluce le dolcissime statuine in terracotta di una prozia, o se non si posa lo sguardo sulle poesie, gli schizzi, le foto del mio avo Gustavo. Tutte facce di un unico prisma.
Partendo dalla voce di papà in cui riaffiorano le voci e le esperienze di chi lo ha preceduto, puntellandomi agli scritti e al materiale documentario della personalità più emblematica e al di sopra del comune, il bisnonno Gustavo (1857-1945)3, provo a ripercorrere le iniziative industriali della famiglia Dufour per capire le dinamiche che possono averne accompagnato la nascita e gli sviluppi successivi.
Dopo Laurent, emigrato a Torino al seguito del Conte d’Artois che fuggiva dalla rivoluzione, è suo figlio Lorenzo II che per primo nel 1829 si trasferisce a Genova, divenuta sua città di elezione, per impiantarvi una raffineria di zucchero. Il luogo prescelto è nel comune di Sampierdarena, un grandioso palazzo genovese detto Palazzo del Vento, in realtà tutto da risistemare. L’ubicazione si rivelerà pionieristica: nei decenni successivi la vallata del Polcevera, suppongo grazie agli spazi pianeggianti e alle vie di comunicazione verso l’interno che a metà del secolo verranno potenziate dalla ferrovia, diventerà assieme a Sestri Ponente il territorio più attrattivo per le industrie genovesi. Interessante individuare tra le righe delle testimonianze famigliari4 quali passaggi siano stati predisposti prima di compiere una scelta così impegnativa quale intraprendere il mestiere di industriale, cambiare città, trasferirvi la numerosa famiglia. Lorenzo II si documenta (facendoli arrivare da Parigi!) su testi tecnici all’avanguardia circa il procedimento della raffinazione a vapore, opera una valutazione del mercato da cui ricava che la domanda di zucchero rimane ancora abbondantemente scoperta, si rivolge al Re Carlo Felice per ottenere l’esenzione dei dazi sui macchinari e sulle materie prime come già accordato nello Stato Sardo ad altre manifatture. Non manca pure una sorta di preoccupazione ecologica: verrà utilizzato il carbon fossile delle cave di Cadibona, vicino a Savona, con risparmio grandissimo di combustibile. E la raffineria verrà affiancata da una fabbrica di nero d’ossa, un carbone animale usato per decolorare e purificare i cristalli zuccherini. Inoltre, prima di lanciarsi in questa avventura, Lorenzo provvede a liquidare i suoi interessi e le sue proprietà a Torino e a Parigi, in modo da poter concentrare tutti i suoi capitali nella nuova impresa. Questo dà la misura della radicalità della sua scelta e dunque della fiducia riposta nel piano industriale per cui è pronto a giocarsi il tutto per tutto. Le sue aspettative non andranno deluse e l’investimento si rivelerà decisamente remunerativo fino al 1840, anno in cui la raffineria verrà chiusa in conseguenza di modifiche nel regime doganale stabilito da Carlo Alberto.
La capacità di adattarsi rapidamente al mutare delle congiunture politico-economiche proietta Lorenzo II verso nuovi impieghi del suo capitale. Nasce così la “Società Dufour e Millo Armatori”, proprietaria di quattro velieri e un piroscafo, ma l’attività ha vita breve forse perché il socio non è all’altezza e Lorenzo non è in grado di occuparsi direttamente di un mestiere che non è il suo.
Torna invece nel 1843 a interessarsi al settore chimico, dove aveva acquisito una certa esperienza. Mette a punto egli stesso una nuova modalità di estrazione del solfato di chinina e nei locali dell’antica Raffineria ne avvia la produzione.
Parte del capitale accumulato, sull’onda delle grandi trasformazioni urbanistiche destinate a rinnovare completamente la fisionomia della città di Genova, viene investito in operazioni edilizie, in particolare nel grandioso progetto, da lui stesso disegnato, di tre nuovi caseggiati in Salita Santa Brigida, alle spalle di Via Balbi.
Nel frattempo indirizza i figli a percorsi di studi impegnativi e segnatamente all’avanguardia per l’epoca di metà Ottocento: Lorenzo III sarà ingegnere idraulico, Maurizio laureato in legge, Carlo in chimica e Luigi in medicina con specializzazione in botanica. La loro preparazione all’entrata nel mondo delle attività industriali comprenderà anche, segno di grande apertura mentale per i tempi, diversi viaggi all’estero, in Europa e nel 1852 persino in America Meridionale e in quella Settentrionale.
Scrive Gustavo Dufour:
«Non mi risulta che Lorenzo Dufour abbia mai acquistato titoli di rendita, di Stato o industriali; neanche abbia mai avuto attività borsistica. […] Egli volle far rendere i suoi capitali colla sua opera, avere la soddisfazione del guadagno stillato dal proprio lavoro5».
In questa annotazione riferita al capostipite mi pare di poter cogliere un tratto distintivo di tutto l’operato economico della famiglia, incentrato sulla capacità di investire in casa propria, in coerenza con gli interessi del territorio e a seguito di uno stretto legame con la realtà locale. Un capitalismo, nel bene e nel male, privo di connotazioni speculative o finanziarie, che trova nell’ampliamento del lavoro e delle risorse locali il suo punto di forza.
Verso la metà del secolo XIX Sampierdarena cominciava ad assumere l’aspetto di una città industriale. Nel 1846 a ponente dei possedimenti Dufour venne costruito lo stabilimento metallurgico “Taylor&Prandi” dal quale avrà origine nel 1852 lo stabilimento Ansaldo. Gli orti lasciano il posto ai capannoni e lungo il confine tra le due proprietà viene aperta Via Operai. A seguito di queste trasformazioni i Dufour decidono di abbandonare la palazzina prima utilizzata per la villeggiatura ma ormai inadeguata e acquistano da un nobile Spinola un bel palazzo con villa a Cornigliano, dimora che resterà la loro casa di campagna e poi di residenza abituale.
Nel 1853 muore Lorenzo II e la Ditta, che prende ora il nome di “Fratelli Dufour”, passa in mano agli eredi Lorenzo III, Carlo e Luigi, mentre Maurizio già nel 1860 se ne distaccherà per dedicarsi esclusivamente ai suoi interessi pittorici e architettonici e a un grande fervore di opere caritative. Dopo la morte prematura di Lorenzo III nel 1867, al raggiungimento della maggiore età verranno associati alla Ditta i suoi figli Lorenzo IV e Gustavo, ambedue laureati, il primo in chimica e il secondo in ingegneria navale.
Gli investimenti industriali dei Fratelli Dufour si sviluppano soprattutto nel settore chimico e farmaceutico. Alcune iniziative sono di breve durata (produzione dell’acido citrico sfruttando il nero d’ossa, dei saponi, dell’estratto di tamarindo), mentre la fabbrica di mannite e quella del chinino resteranno a lungo in attività. Quest’ultima estraeva i principi attivi, benefici soprattutto contro le febbri malariche, dalle cortecce di una pianta chiamata China o Cinchona, acquistate tramite agenti operanti sui mercati di Londra, Parigi e poi dell’Olanda. Le scorze arrivavano imballate nel cuoio greggio che poi veniva rivenduto ai conciatori. I profitti conseguiti ebbero un andamento alterno, influenzato soprattutto dalle vicende politiche: ci fu un picco della domanda e un relativo innalzamento dei prezzi in occasione della guerra russo-turca del 1877, poi un periodo di crisi e un successivo risveglio nel 1885 in conseguenza della formazione di un trust propugnato da un banchiere tedesco amico di Crispi ma, quando il trust si ruppe, il prezzo precipitò.
Dall’unione societaria “Dufour&Bruzzo” in essere tra il 1870 e il 1902 nacquero una fabbrica di olii di semi, un’impresa armatoriale, che tra l’altro nel 1884 commissionò allo stabilimento Ansaldo il piroscafo S. Gottardo, e una Ferriera per la lavorazione delle lamiere sottili in ferro del tutto innovativa per l’Italia di allora, insediata in un’area di Bolzaneto.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento i Dufour ampliarono ulteriormente le loro attività con una fabbrica di estratti di campeccio, utilizzati per la tintura, e una di estratti di quebracho, impiegati nelle concerie. A questo proposito, una questione legale attinente al brevetto sulla modalità di estrazione li costrinse a un accordo con la società concorrente “Lepetit” (1908 – 1918) e poi con la “Ledoga” (1918 – 1928) che si rivelò alla fine oneroso e fonte di guai.
Nel 1893 viene acquistata una villa a Borzoli per dare avvio alla conceria “L.&G. Dufour”, di proprietà dei fratelli Lorenzo IV e Gustavo, dove adoperare gli estratti prodotti dalle altre fabbriche. Proprio per rifornirsi direttamente del prezioso legno, dalla cui corteccia si ricava il tannino, i Dufour nel 1902 acquistarono 200 Km quadrati di foresta di quebracho nel Chaco, in America del Sud. Dotarono questa colonia anche di una ferrovia a vapore, per trasportare i carichi sino al fiume Paranà, di un ponte, di una fattoria con allevamento di bestiame e di una segheria per costruire le traversine. In quegli stessi anni vengono anche recuperati a prezzi molto convenienti numerosi velieri, ormai quasi completamente sostituiti sul mercato dai vapori; anche se il viaggio poteva durare tra gli 8 e i 12 mesi, avrebbero trasportato merce non deperibile e inoltre erano giudicati più comodi per le operazioni di carico e scarico e pure utilizzati come magazzino nei porti. Molti velieri durante la prima guerra mondiale finiranno silurati dai sottomarini tedeschi o requisiti dal Governo. Tutte queste traversie del periodo bellico saranno in parte compensate da un rialzo dei prezzi conseguente all’aumentato bisogno di prodotti conciari per il rifornimento dell’esercito.
Pur negli esiti alterni, mi colpisce l’ampiezza dello spettro di queste attività che arriva a estendersi fino a territori e a continenti diversi, a trasporti, diremmo oggi, multimodali, a interessi poliedrici ma tutti leggibili come tasselli di un unico spirito imprenditoriale. Una certa duttilità nell’abbandonare i rami infruttuosi, capacità di riconvertire le aziende in funzione di una maggiore sintonia con l’evolversi delle congiunture, il tentativo di creare una filiera verticale o accordi orizzontali con le imprese concorrenti mi sembrano segnali di un modus operandi inteso a far discendere le scelte economiche da una valutazione delle prospettive. E il punto di arrivo di circa un secolo di attività e di affinamento delle capacità industriali della famiglia prende forma nell’opera più famosa, la produzione delle caramelle, frutto al contempo di un insuccesso e di un colpo d’ala.
Negli anni 1926-27 nel vecchio stabilimento di Sampierdarena si erano sperimentate anche l’estrazione del sugo di liquirizia e il suo impiego in vari articoli dolciari ma la scarsa attinenza con le altre produzioni e la difficoltà di integrarla nell’organizzazione commerciale esistente, aveva indotto i titolari della Ditta ad abbandonare l’impresa.
È a questo punto che invece Gustavo Dufour, coadiuvato soprattutto dal figlio Alfonso6, decide di rilevare in proprio l’impianto e traslocarlo a Cornigliano in nuovi locali destinati esclusivamente alla produzione di caramelle. Gli esordi furono faticosi: forse scommettere sui consumi di genere voluttuario rappresentava una scelta in anticipo sui tempi. Poi però la guerra di Etiopia e la nascita dell’Impero coloniale italiano aprirono sbocchi di mercato prima impensabili e resero necessari nel 1937 un radicale ampliamento dei locali e una decisa meccanizzazione degli impianti. L’introduzione del nuovo marchio “DUFOUR”, abbinato al logo La Fleur de Lys accordata da Luigi XVIII al capostipite Laurent, e una gamma di prodotti rivisitata nella qualità e nella presentazione commerciale permisero di compiere quel balzo in avanti con cui il nome dell’azienda diventerà e resterà per decenni apprezzato e consolidato. Le vicende della guerra che imposero anche un contingentamento dello zucchero, resero inevitabile ridurre al massimo la produzione, senza arrivare però a interromperla del tutto. La fase post-bellica trovò l’azienda pronta a ripartire e a sfruttare appieno il boom successivo alla ricostruzione: gli anni ‘50 e ‘60 segnarono un grande successo economico e grande notorietà. Slogan e materiali pubblicitari, filmati e coreografie per Carosello, entrarono a far parte dell’immaginario collettivo.
Dal candido giglio borbonico fino agli azzeccati strumenti pubblicitari della seconda metà del Novecento, le strategie imprenditoriali e l’immagine sociale della famiglia Dufour attraversano circa 150 anni della storia di Genova. La gestione oculata dei capitali si dipana in un susseguirsi di iniziative all’insegna e della continuità (dalla raffineria di zucchero alle caramelle, da un’attività estrattiva a un’altra) e della diversificazione, tenute insieme da un gusto spiccato per la sperimentazione chimica, il laboratorio, la ricerca. I titolari operano a stretto contatto con le maestranze, applicando e adattando con inventiva le conoscenze accademiche e quelle sperimentali. Difficile distinguere negli anfratti ingolfati della memoria tra pozioni magiche e procedimenti scientifici, tra il fascino esoterico degli alambicchi e il rigore di ritrovati sottoposti a brevetto. E su tutto, nelle successive sedimentazioni dei miei ricordi, un’orgia di odori, aromi, percezioni olfattive che si incrociano senza contaminarsi. Dalla melassa al tannino alla liquirizia, dai miasmi delle vasche di concia alle essenze naturali di frutta adoperate nei dolciumi, ogni fabbrica riemerge impregnata di un carattere olfattivo che la contraddistingue. E il lavoro che vi si svolge ha spesso a che fare con materiali organici e consistenti, voluminosi come i tronchi, i gropponi, le cortecce, i bottali che ingombrano e reclamano una sorta di rispetto e di riconoscimento. Dunque fabbriche manifatturiere lontane anni luce dall’industria virtuale e inodore del terzo millennio, fornitrice di servizi impalpabili. Fabbriche inesorabilmente figlie della loro epoca otto-novecentesca, la cui conclusione segnerà anche la fine del ciclo imprenditoriale della famiglia.
E sebbene interiormente qualcosa fa resistenza ad aprire le paratie dei ricordi più vicini ancora intrisi di voci e di preoccupazioni, so che mi resta da affrontare l’ultimo capitolo, quello che dopo i fasti degli anni ’70 e l’acquisizione della “Elah”, vede la “Dufour S.p.A.” avviarsi verso un lento e travagliato declino che la porterà nel 1982 a vendere la proprietà e il marchio. E sempre l’ultimo capitolo vede la Conceria “L.&G. Dufour” chiudere i battenti dopo un oneroso trasferimento dalla storica sede di Borzoli a uno stabilimento in Corso Perrone, a seguito delle nuove disposizioni del piano regolatore cittadino, trasferimento che aveva richiesto ingenti investimenti in un periodo di crisi finanziaria segnata da tassi bancari elevatissimi e in una fase di radicale trasformazione del mercato calzaturiero.
Come dicevamo all’inizio, non ci sono scorciatoie. Se abbiamo cercato di fare luce sulle ragioni dei successi imprenditoriali, occorre guardare in faccia anche quelle che ne hanno determinato la crisi e le dismissioni. Qui l’analisi si fa più complicata: attorno agli anni ’80 a Genova, a differenza che in altre aree del Nord Italia, cambia radicalmente il contesto politico, sociale, urbanistico, culturale. Le grandi industrie genovesi sono ormai in prevalenza pubbliche, la penuria di spazi e di vie di comunicazione condiziona lo sviluppo della città, gli anni di piombo hanno lasciato uno strascico greve, una cultura spesso antagonista oppone il mondo dei lavoratori a quello industriale. Contemporaneamente a queste trasformazioni epocali, in molti discendenti delle storiche famiglie genovesi si va spegnendo la scintilla dello spirito imprenditoriale. E allora il passaggio generazionale si inceppa.
«Ricordatevi che essere a capo di industria è una responsabilità grave, specialmente nei confronti di quanti altri, nelle stesse imprese, in qualunque modo collaborano e da esse traggono i mezzi per la loro vita e per quella delle loro famiglie. Per fare andar bene un’impresa sono necessari i mezzi, l’intelligenza e l’entusiasmo, ma più di tutto sono indispensabili l’onestà, la prudenza e lo spirito di sacrificio7».
Forse in questa limpida sintesi del protagonista, che sottende un modello famigliare di azienda e un modello di coerenza etica nella sua conduzione, sta la formula dell’ascesa ma anche la chiave del tramonto di un certo capitalismo.
Da lì in poi, ai valori di sempre che abbiamo individuato in questa come in altre storie di capitalismo famigliare (disponibilità al cambiamento, propensione per la ricerca e l’innovazione, coinvolgimento sociale dell’impresa) per affrontare la nuova stagione occorrerà aggiungere l’utilizzo di adeguati strumenti finanziari, l’impiego di manager e la capacità di espansione a livello internazionale.
Da lì in poi il mestiere di industriale richiederà, al di là della tempra energica e della saggezza delle nobili figure d’antan, un complicato corredo di strategie, intuizioni e ampie visioni globali che andranno a inaugurare tutta un’altra storia. Ma questo se mai in una prossima puntata…
1 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia, (d’ora in poi, UD) Newton Compton Editori, Roma 1978, pag. 56.
2 A questo riguardo, cfr. l’ottimo lavoro di Bernadette Costa, I DUFOUR. Pubblico e privato di una famiglia imprenditoriale genovese tra ‘800 e ‘900, Erga edizioni, Genova 1999. Sugli archivi privati famigliari Dufour e gli archivi delle imprese Dufour si vedano le pag. 33-60. In particolare alle pag. 58 -59 si fa riferimento all’Archivio Storico Ansaldo dove sono conservati i documenti dell’azienda “Dufour S.p.A.”.
3Le principali notizie sulla storia industriale dei Dufour sono tratte da: Gustavo Dufour, Cento anni di attività industriale, La Poligrafica ligure, Genova 1934 (d’ora in poi C.A.A.); Idem, Cornigliano Ligure dalla seconda metà del 1800 ai primi decenni del 1900, Tip. C. Foce, Genova 1938.
4 C.A.A. cit., pag. 21-23.
5 C.A.A. cit, pag. 33.
6 Molte delle informazioni riportate di seguito sono tratte dall’articolo di fondo di Alfonso Dufour, 25 anni dopo, in: Giornale di Fabbrica “Dufour Caramelle”, Numero unico Genova, 31 marzo 1951, edito in occasione della inaugurazione dei nuovi reparti.
7 Dal testamento spirituale di Alfonso Dufour, Genova, 10 agosto 1963.
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