6 giugno
Andrea Doria: la Grande Dame degli abissi - Parte II
di Andrea Murdock Alpini
di Andrea Murdock Alpini
Continua l’emozionate storia alla scoperta del relitto dell’Andrea Doria nelle profondità dell’oceano: il racconto di una “passeggiata” subacquea ricca di dettagli ed emozioni.
Relitto dell'Andrea Doria, le tre bitte di poppa sulla murata sinistra, Courtesy PHY Diving Equipment
Arrivato al punto di ancoraggio sul relitto, non trovo più lo spool che avevo lasciato la mattina. Tranciato dalla corrente, sparito. Meno male che è rimasta l’altra sagola di diametro maggiore che avevamo posizionato durante il primo giorno di immersioni. Conto le bitte: prima due, poi tre. Eccoci. È qui che bisogna attraversare la chiglia per raggiungere la maestosa elica di sinistra.
Sotto murata la corrente è bassa, un nodo, niente in confronto ai quattro e cinque nodi a cui eravamo sempre abituati. Oltre la paratia quanto sarà intensa?
Ho ancora ben in mente il ricordo del primo giorno quando affacciandomi ho sentito la pelle del mio volto essermi strappata dalla faccia. Mano sinistra e mano destra sono ben salde al relitto. Alzo lo sguardo, non sento forze ostili. Dopotutto la forma della chiglia dell’Andrea Doria funge da rampa di lancio per la corrente che accelera sulla forma curvilinea del suo scafo. Trovarsi dall’altro lato significa essere scagliati a tutta forza oltre il relitto e quindi perderne il contatto. Decompressione in libera, attivazione delle procedure di sicurezza in superficie e successiva ricerca del subacqueo disperso con il piccolo natante di supporto della D/V Tenacious.
Ecco perché nessuno, o quasi, si avventura fuori dalla protezione che il relitto offre attraverso l’angolo creato dai suoi ponti in rapporto al fondale dell’Oceano. L’eccesiva e impenetrabile corrente è il motivo per cui i due tentativi precedenti sono falliti. O meglio abbiamo rinunciato, onde evitare conseguenze estremamente difficili da gestire.
Joe Mazraani trova un oblò lungo la murata di sinistra, pochi metri dopo aver oltrepassato la battagliola. Conficca lì la sua luce stroboscopica, la mia l’ho lasciata sulla linea di discesa. Il senso di posizionare qui una seconda luce lampeggiante è quello di ritrovare la via. Il tratto di chiglia da percorrere è ampio, la visibilità non permette comunque di muoversi a vista. Lungo lo scafo la corrente accelera, esattamente come mi aspettavo. Avere un’indicazione della via più breve per il rientro è un buon supporto mentale.
Ho lasciato le tre bitte alle mie spalle, ora pinneggio in direzione dell’elica. Impiego qualche minuto per raggiungere la profondità di settanta metri. Una forza a me contraria limita la mia velocità di progressione. Poi d’improvviso, appare dal nero. Sento Joe chiamarmi: “Andrea! It’s here”. È per lui la prima volta dopo quasi un centinaio di immersioni sul relitto. È per me il senso del viaggio. Vedo subito due pale, poi conto le altre. Inizio a filmare, ma quando arrivo di fianco alla pala e vedo lo spessore di cui è composta resto estasiato. È una lama sottile, precisa, possente. La forma di ogni pala è qualcosa di magico che diviene armonia nella visione d’insieme. Giro tutt’attorno all’elica, per un attimo mi sento Nijinskij.
L’elica è tanto grande che non riesci a vederla contemporaneamente da una parte all’altra. Sotto la coltre soffice di anemoni, da qualche parte, è ancora scritto il nome “Genova”. Quando sono partito mi sarebbe piaciuto replicare il gesto di Stefano Carletti, in una sorta di omaggio al maestro, e portare alla luce il nome della città in cui questa Signora del mare è nata.
A dire il vero, una spazzola a bordo della D/V Tenacious c’era. Tutti i giorni la guardavo, ma oggi quando sono sceso non ci ho creduto abbastanza. Pensavo che la corrente non mi permettesse di andare all’elica, tanto che il piano principale era divenuto quello di muoversi in direzione del centro nave per fare altri filmati e raccogliere più immagini del relitto. Eppure, una volta sul fondo, ho valutato che le condizioni fossero idonee almeno per provarci. E così, l’Andrea Doria si è mostrata. La nave per la prima volta si è davvero concessa.
L’Andrea Doria il giorno del varo,Fotografia proveniente dalla Fototeca di Fondazione Ansaldo
Il bulbo è affusolato come un proiettile. Il bulbo è bello come un’opera di Michelangelo e raffinato nella forma come un calcolo ingegneristico di Leonardo. Qui, da questi dettagli, si capisce la bellezza della nave. L’Andrea Doria era un capolavoro galleggiante, non era soltanto un transatlantico di lusso.
L’Andrea Doria alcuni decenni fa doveva essere l’ottava meraviglia del mondo da ammirare sott’acqua. Oggi le devastanti correnti e le burrasche oceaniche l’hanno parzialmente distrutta.
Un capolavoro però lo riconosci dal dettaglio. Non serve vedere tutta l’opera di un maestro rinascimentale per capire quanto fosse bello l’intero quadro, ne basta una parte. Una parte descrive il tutto.
Se vai a Firenze, Roma, Milano, Venezia, Napoli o Palermo, Urbino, Parma o Genova, ovunque tu vada puoi percepire la grandezza dell’Italia che fu. E così è sull’Andrea Doria, ovunque tu vada percepisci l’italianità. Cosa significa essere italiani? Questo è un valore che il nostro popolo calpesta e bistratta, eppure lo Stivale ha qualcosa da trasmettere a chiunque si imbatta nel suo senso culturale.
Qualcuno dice che vedere oggi l’Andrea Doria non abbia senso poiché sta scomparendo. Il senso invece è proprio questo, vederla prima che scompaia per sempre. Dopotutto, anche andare a Roma e vedere il Colosseo ha senso anche se è lacunoso di molte parti, anche se la sua architettura è ormai frazionata e ben diversa dall’originale Teatro Flavio. “Begli edifici, meravigliose rovine”, così diceva Louis Khan, architetto americano che ha trovato le sue radici nell’architettura del passato.
Belle navi, meravigliosi relitti.
È giunto il tempo che la mia danza attorno all’elica rinascimentale dell’Andrea Doria finisca. Devo andarmene, non prima però di averla fatta mia. L’abbraccio, ma in realtà mi sento avvolto da lei. Con la mano destra l’accarezzo e la ringrazio per l’opportunità che mi ha dato. Come ho già detto in passato, bisogna essere in due perché i miracoli avvengano in un relitto. “Il sogno era sempre stato davanti a me, in fuga. Raggiungerlo, trascorrevi un momento all’unisono, quello era il miracolo”.
E così, prima di girarle le spalle, mi sono tolto l’erogatore di bocca e ho appoggiato le labbra sulla prima pala in cui mi ero imbattuto. Un lungo arrivederci, poi ho ripreso la via dell’opera viva.
La chiglia risalendola mi è sembrata verticale. La corrente iniziava a farsi sentire nuovamente e così, per non divenire sua facile preda, ho risalito la china quasi in verticale. Ho scalato il mio pezzo di K2 con le mani. Non ho nuotato lungo lo scafo, l’ho proprio risalito bracciata dopo bracciata, dopotutto il mio cognome un senso di montagna lo porta e quindi mi è sembrato più che giusto onorare la “Nave degli italiani” in questo modo.
Mi sono riparato sotto murata. Sono tornato verso il pedagno a favore di corrente. Ho guardato il manometro e dato che i consumi erano assai bassi e contenuti mi sono concesso un ultimo giro di valzer sul relitto. Ho tenuto la linea degli oblò sulla murata di sinistra come riferimento per arrivare al poggia lancia dell’ultima scialuppa della murata. Poi sono sceso di quota e sono riuscito a guardare dentro l’Andrea Doria. Ho intravisto gli interni, ho allungato le braccia e ho provato a filmare quel che potevo tenendomi con una mano sempre ben saldo al relitto. Qui per la prima volta mi sono mosso senza sagola guida. La tentazione era quella di continuare e guardare sempre più in là, poi però mi sono fermato e ho interrotto bruscamente la mia voglia di continuare ad esplorare il relitto.
“Se la corrente tornasse all’improvviso?”.
Dopotutto questa stanca è stata una sorta di miracolo improvviso. Quando mi immergevo in Irlanda alcuni anni fa, a Malin Head, a bordo sempre dicevamo che alla prima avvisaglia di corrente crescente quello era il segnale di chiudere l’immersione. E così ho fatto, anche questa volta, dall’altra parte dello stesso Oceano.
Prima di lasciare il relitto, l’ho guardato. Ho poggiato la mia mano destra sulla sua murata e ho detto alla bella Nave che giace sul fondo dell’Atlantico: “Allora torno a trovarti”.
In decompressione mi sono commosso.
Il sogno era diventato realtà.
Andrea Murdock Alpini mentre carica le attrezzature subacquee a bordo della DV Tenacious,courtesy PHY Diving Equipment
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