24 maggio
Andrea Doria: la Grande Dame degli abissi
di Andrea Murdock Alpini (PHY Diving Equipment)
di Andrea Murdock Alpini (PHY Diving Equipment)
La maggior parte di noi conosce la grandiosa, e triste, storia dell’Andrea Doria. Un maestoso transatlantico costruito nei Cantieri navali Ansaldo di Genova Sestri Ponente e varato il 16 giugno 1951. Partì per il suo primo viaggio, da Genova a New York, il 14 gennaio 1953.
La turbonave è stata per l’Italia motivo d’orgoglio e simbolo di rinascita dopo la Seconda guerra mondiale. Era considerata infatti la più bella nave passeggeri e venne soprannominata l’elegante Signora del mare, all’estero conosciuta come la Grande Dame.
Purtroppo la sua carriera non durò a lungo, a poco più di 3 anni dal suo viaggio inaugurale, nella notte del 25 luglio 1956, venne speronata dal mercantile svedese Stockholm. Iniziò così la sua discesa verso gli abissi, portando con sé 46 vite.
Tuttavia la sua storia non finì con questo suo ultimo e triste viaggio, che infatti continua tutt’oggi, anche attraverso la penna di Andrea Murdock Alpini: esperto di immersioni subacquee su relitti, che è riuscito a documentare con fotografie e filmati le condizioni attuali di quello che resta dell’elegante Signora del mare.
Oggi ci racconta la prima parte delle sue avventure.
Varo dell’Adrea Doria, immagine di Fondazione Ansaldo
PARTE I
Il giorno che abbiamo lasciato le cime a terra a Montauk, qualche ora prima di completare il carico e rizzarlo, stavo leggendo i Diari Antartici per ingannare l’attesa. A pagina 118 ho trovato una frase di Shackleton che mi ha particolarmente colpito.
Finalmente siamo in marcia dopo quattro anni di preoccupazione, di lavoro.
Auguro a tutti noi il successo perché ho dedicato a questa impresa tutte le mie forze.
Oggi mi trovo in mezzo all’Oceano Atlantico, finalmente ancorato sopra l’Andrea Doria. È giunta l’ora di compiere delle scelte. Arrivare fin qui è stata l’impresa. Ora bisogna raccontare la nave, ma anche il relitto.
La sicurezza è un aspetto a cui spesso ho pensato prima, ma soprattutto durante queste immersioni sull’Andrea Doria. I problemi ad essa connessi dipendono in larga parte dalla distanza della costa. La corrente è sempre presente e forte, determinata a strapparti dalla barca per farti ritrovare a molte miglia di distanza, in mezzo a un oceano sconfinato e ruvido. La profondità è un problema relativo se non legato al tempo di fondo, ovvero al tempo di decompressione.
Ho pensato così tanto al fattore della sicurezza che la mia decisione iniziale è stata quella di non svolgere immersioni della durata superiore alle due ore. Centoventi minuti sono un buon compromesso tra le condizioni ambientali e il tempo di fondo. Anzi, durante la seconda immersione che ho effettuato sul relitto, tanto era scarsa la visibilità che ho deciso di tagliare il tempo di fondo per evitare un’inutile lunga decompressione dato che non avrei ottenuto nessuna buona immagine ma solo scampoli di relitto.
È stato un lungo percorso quello che mi ha condotto sul relitto dell’Andrea Doria. Da una parte il sogno che avevo da bambino, dall’altra quello del giovane adulto che vuole confrontarsi con il passato della subacquea ma che allo stesso tempo guarda al futuro di questa disciplina.
Un tumulto di pensieri mi attraversa prima di buttarmi in acqua per la terza e ultima volta di questo primo viaggio alla ricerca di ciò che è rimasto della Grande Dame. Il relitto dell’Andrea Doria è spesso appellato come K2 o l’Everest della subacquea. Mi sono sempre chiesto perché proprio quella montagna e non un’altra vetta aspra e difficile da raggiungere? Non so chi abbia chiamato il relitto per la prima volta con questo nome. Il K2 è conosciuto come: “La montagna degli italiani” ovvero un tributo a coloro che sono stati i primi a salirla fino in vetta, il 31 luglio 1954. Due anni dopo e solo una settimana prima di quella data, la bella nave del rinascimento culturale italiano, sociale, politico, economico e manifatturiero affondava al largo del Banco di Nantucket. Nel 1954 la spedizione guidata da Ardito Desio, arrivata tra le montagne del Pakistan, sceglie di raggiungere la vetta del K2 per la via che passa dallo Sperone Abruzzi, là dove Sua Altezza Reale il Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia arrivò e si fermò nel lontanissimo 1909.
Allora qual è lo Sperone Abruzzi dell’Andrea Doria?
La corrente.
Andrea Murdock Alpini durante una delle sue immersio
Questo a mio avviso è il fattore ambientale che maggiormente va gestito in una spedizione su questo relitto. Male interpretare la corrente significa una débâcle totale del viaggio. A volte bisogna aspettare che la sua intensità diminuisca, che il flusso turbolento e travolgente perda progressivamente di forza per far sì che si possa entrare in acqua.
Mi è capitato di vedere l’acqua ribollire in superficie tanta era la sua forza.
Mi è capitato di vedere cime zavorrate trascinate come pagliuzze in ogni dove.
Mi è anche però capitato di vedere improvvisamente la corrente sparire del tutto in una frazione di secondo. Alla fine della prima immersione ho pensato che avrei dovuto rivedere i miei obiettivi, sia per l’intensità della corrente sia per le condizioni del relitto stesso. Uno schiaffo mi aveva dato la Grande Dame in quella prima occasione d’incontro. Prima di buttarmi in acqua per la seconda volta mi sono lungamente parlato per autoconvincermi e trovare la forza di affrontare al meglio quel secondo tuffo: “Dai! È solo maledetta corrente!”. La terza occasione ero deciso a non sprecarla, volevo qualcosa di più dall’Andrea Doria. Quello che volevo io bisognava ora vedere che lo volesse anche lei.
Siamo al quarto di luna e la corrente è ai suoi picchi. Dentro di me spero che succeda come al mio amico Stefano Carletti durante la sua ultima immersione qui, nel lontano 1968. Allora la corrente si era improvvisamente placata e per la prima volta Stefano Carletti, Bruno Vailati e Al Giddings videro davvero l’Andrea Doria, in una sorta di stato di grazia.
Quando ho visto il relitto per la prima volta, toccando la murata di sinistra, ho sussurrato alla nave: “E così sei tu, l’Andrea Doria”. Nonostante sapessi molto della nave non sapevo nulla del relitto, almeno finché non mi sono imbattuto nel suo incontro. Adesso sono in acqua, inizio a respirare per lasciare la superficie e già dai primi pugni che afferrano la cima mi accorgo che adesso qualcosa è cambiato. L’acqua ha un colore diverso, la densità è differente, ma soprattutto la corrente è assai meno intensa, sembra quasi che stia sparendo. Il tratto che di solito impiego due minuti a compierlo adesso l’ho coperto in meno di un minuto. Il vetro della mia maschera per la prima volta non è inondato da plancton e nutrienti che mi sbattono addosso in continuazione. Ora, finalmente vedo. A ventisei metri alzo lo sguardo e scorgo la cima che non traballa come le gambe di un ubriaco che si aggira tra i carruggi. La cima è dritta, tesa. Più scendo e più non si muove. Non posso crederci. Questa deve essere finalmente l’occasione che aspettavo. È giunto il momento di andare all’elica.
Andrea Murdock Alpini illumina l'elica dell'Andrea Doria, Courtesy DV Tenacious e PHY Diving Equipment
Fondazione Ansaldo
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