Nel Roma-Tokyo, il ruolo delle staffette – chiamate a precedere la formazione principale per verificare (e talvolta individuare!) rotte, campi e apprestamenti – esaltò la capacità di Ferrarin di fronteggiare e risolvere gli imprevisti.

 

Bello, coraggioso, affascinante, abile, in grado di passare con disinvoltura da un raid a una missione commerciale, da una gara di velocità a un primato di distanza: nella memoria collettiva Arturo Ferrarin è il protagonista del volo Roma-Tokyo, l’epica impresa che nel 1920 collegò per la prima volta l’Europa al Giappone per via aerea, coprendo il percorso in 30 tappe giornaliere nell’arco di 105 giorni. A Ferrarin appartiene il centenario, così come suo fu il racconto a caldo.

In realtà, il volo Roma-Tokyo fu un’impresa collettiva sotto ogni aspetto. Nel senso più ristretto, perché sul suo SVA 9 viaggiava anche Gino Cappannini, ufficialmente motorista ma in realtà meccanico straordinario, in grado di trarre d’impaccio Ferrarin in numerose situazioni difficili.

Ferrarin e Cappannini

Arturo Ferrarin e Gino Cappannini

Poi perché a Tokyo arrivò anche Guido Masiero, con il suo motorista Roberto Maretto, tradizionalmente collocato un passo indietro per aver raggiunto via superficie alcune località per prelevare aerei di ricambio. Infine, perché al raid parteciparono altri 15 piloti e 8 specialisti a bordo di altri nove aerei, senza trascurare i 25 ufficiali e 57 uomini di truppa dislocati alle varie tappe.

arrivo a Tokio

Ferrarin a Tokio 1 di 2

ferrarin a tokio 2 di 2

Se la narrazione attuale rispecchia la prospettiva dell’arrivo a Tokyo, è innanzitutto perché la selezione attuata dal durissimo percorso ribaltò l’idea iniziale. L’impresa nacque infatti come una sorta di versione intercontinentale del raid che nell’agosto 1918 aveva visto sette biplani italiani violare impunemente la capitale austriaca: stessi aerei, gli Ansaldo SVA, ora nella versione biposto SVA 9; stessi leader, Gabriele D’Annunzio e Natale Palli; stessi piloti dell’87a Squadriglia “Serenissima”; stesso concetto di volo pacifico di massa. Nonostante i mille cambiamenti intervenuti, a partire dall’epurazione dei dannunziani, la matrice rimase la stessa.

A distinguere le due imprese fu il livello di difficoltà. Dei circa 20 SVA in forza, la Serenissima ne aveva approntati per Vienna 14; di questi, quelli che decollarono effettivamente per Vienna furono 11 e quelli che completarono il percorso appena 7, peraltro subito fermati per una revisione. Di fatto, solo due terzi degli aerei avevano completato una missione di circa 1.000 chilometri in un giorno solo. Anche così, restava il senso di un impegno di squadra. Andare a Tokyo significava percorrere oltre 17.000 chilometri, per di più a ritmo forzato, impresa che un piano assai ottimistico pensava che gli SVA potessero compiere in appena 12 giorni. I Caproni, più lenti, partirono prima, nella prospettiva di giungere comunque insieme alla metà. Entrambi i gruppi subirono incidenti e peripezie varie, e lo spirito collettivo si spense definitivamente quando solo le staffette Ferrarin e Masiero riuscirono ad andare oltre l’India.

Questo non vuol però dire che la dimensione individuale sia stata solo frutto di un processo di selezione tanto naturale quanto casuale. Fin dalla propria ostinata determinazione a partecipare al Roma-Tokyo non appena avutane notizia a Parigi, Ferrarin contribuì in modo decisivo a scrivere la storia del raid, alla creazione della propria carriera professionale e alla nascita della propria leggenda.

Al contrario del cugino Francesco, uno degli quattro piloti della Serenissima che non arrivarono a Vienna, durante la Prima guerra mondiale Arturo si era messo solo limitatamente in mostra. Nato nel 1895, sesto di sette figli, si diplomò ragioniere, presumibilmente in vista dell’ingresso nell’impresa laniera di famiglia. Richiamato allo scoppio della guerra, si offrì volontario per il Battaglione Aviatori e, dopo alcuni mesi come mitragliere in una squadriglia da difesa a Verona, nel 1916 si brevettò pilota alla scuola Gabardini di Cameri. Fu quindi riassegnato come istruttore alla scuola di Cascina Costa, accumulando un’esperienza non comune che gli tornò utile quando, nel dicembre 1917, giunse all’82a Squadriglia Caccia, dove ottenne una medaglia d’argento per due vittorie in combattimento aereo, peraltro non confermate nella verifica postbellica.

Nel Roma-Tokyo, il ruolo delle staffette – chiamate a precedere la formazione principale per verificare (e talvolta individuare!) rotte, campi e apprestamenti – esaltò la capacità di Ferrarin di fronteggiare e risolvere gli imprevisti. Dall’audace fuga dai Baluci alla decisione di abbandonare Calcutta senza attendere l’ormai improbabile arrivo degli altri SVA, Ferrarin trasformò gradualmente l’impresa da collettiva in individuale. La metamorfosi si completò con la separazione dei due piloti – Ferrarin in Italia, Masiero in Cina per riprendere i contatti per una fornitura di SVA. Acutamente consapevole del valore della promozione, Ferrarin reagì al disinteresse ufficiale con una serie di conferenze sul raid, la realizzazione di un documentario (proiettato davanti al re e alla regina, nonché nelle conferenze di Roma e Genova) e la pubblicazione del libro Il mio volo Roma-Tokio (stralci del quale uscirono in anteprima su La Stampa nel giugno 1921).

Alla costruzione della leggenda del pilota non fu probabilmente estranea l’Ansaldo, che si era affrettata ad assumerlo come collaudatore, nella consapevolezza del suo duplice valore professionale e promozionale. Il rapporto con l’industria, conclusosi nel 1928, permise a Ferrarin di arricchire il suo curriculum con ulteriori esperienze e affermazioni prestigiose come i primati mondiali di durata (58h 43’) e distanza in linea retta (7.188 km) conquistati nel 1928 su Siai Marchetti S.64. La dimensione strettamente individuale del suo approccio venne alla luce nel 1930, quando il sottosegretario all’Aeronautica Italo Balbo accelerò la trasformazione della Regia Aeronautica in senso collettivo. Lo scontro, del quale resta testimonianza in un duro scambio epistolare, sanciva la fine dell’epoca delle “primedonne” di talento a favore dei professionisti bene addestrati. La stessa filosofia, insomma, che era stata alla base del Roma-Tokyo, senza riuscire a saldarsi con materiali e organizzazione di qualità adeguata. Dopo un ulteriore scontro con la Fiat, legato alla morte di Edoardo Agnelli su un idrovolante pilotato proprio da Ferrarin, il grande pilota proseguì la propria carriera di collaudatore presso aziende minori, fino al tragico incidente che gli costò la vita a Guidonia nel 1941.

Si ringrazia l’Archivio fotografico TA Aeronautica Militare per alcune delle immagini di questo articolo

Gregory Alegi