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Oltre la sfida : l’impresa di Ferrarin in volo con lo SVA9 verso Tokyo
È in questo alone romantico, che ci solleva da terra e che ci fa volgere lo sguardo verso un orizzonte lontano, che troviamo e facciamo nostro il retaggio di quegli aviatori, dei loro SVA e di quel raid di 100 anni fa, ne raccogliamo il testimone con riverente rispetto ed ammirazione ma con lo stesso spirito e con la stessa freschezza e passione.
Generale di Squadra Aerea Alberto ROSSO
Quella dei piloti Arturo Ferrarin e Guido Masiero fu un’impresa epica per concezione, sforzo e realizzazione, “nata” non a caso dall’incontro tra due poeti e sognatori, Gabriele D’Annunzio e il giapponese Harukichi Shimoi, sincero ammiratore dell’Italia.
Il raid richiese le migliori energie e risorse che l’epoca poteva offrire, rappresentò una sfida alle leggi della natura ed ai limiti imposti dalle conoscenze e dalla tecnologia di quegli anni.
La portata di quell’impresa, per quanto spettacolare già agli occhi di chi poté assistervi, tanto da venire celebrata in Giappone con ben 42 giorni di festeggiamenti per decreto dell’Imperatore Taishō, non si esaurisce nel successo contingente del momento; fu tutt’altro che fine a se stessa. Per quanto ne mostrasse alcuni tratti, infatti, non si trattò né di un’avventura temeraria fatta per il puro gusto della sfida, né di un’ordalia, un giudizio divino cui sottoporsi per una sterile dimostrazione di valore e di audacia.
Si trattò, piuttosto, dell’ennesima manifestazione di quella pressione costante, di quella ricerca incessante che l’uomo per sua natura applica ai limiti del conosciuto, all’involucro in cui il mondo cerca di costringerlo e che da sempre cerchiamo di espandere, erodendo poco alla volta il territorio dell’ignoto. È quella continua e costante opera, fatta di tentativi, fallimenti, piccoli passi, improvvisi balzi e assalti (raid …), che di solito ha portato alle più grandi imprese e scoperte del genere umano.
Il volo di Ferrarin trascende il volo, così come il viaggio di Marco Polo trascese il concetto di viaggio. Entrambi diventarono qualcosa di più: simboli, icone viventi e vissute di un processo di scoperta e conoscenza, concetti del resto già insiti in modo seminale in quello di viaggio.
Nelle parole stesse di Ferrarin si intuisce la pulsione a “qualcosa di più” e, forse, una sorta di epifania: «Non ho più incertezze… Sono un Budda, il cinquecentounesimo… Il volo non ha più interesse per me, è un mezzo qualunque. L’arrivo è cosa decisa dal destino».
Che quel viaggio fosse pregno di altri risultati futuri, doveva essergli ormai chiaro.
E infatti il raid Roma-Tokyo diede un contributo significativo al progresso del volo.
Il biplano SVA.9 di Ferrarin, atterrando allo Yoyogi Kōen, alle 14:25 del 31 maggio 1920, dimostrò che il mezzo aereo poteva davvero unire i due capi di una mappa immensa. Ciò che era solo immaginabile da sognatori e da poeti-guerrieri non soltanto si era dimostrato possibile, ma sarebbe diventato la più ordinaria delle realtà.
Cento anni fa per superare 18.000 km furono necessarie 112 ore di volo in oltre 30 tappe, coperte in tre mesi e mezzo, con un dispendio di energie e risorse immenso (tanto da generare critiche e aspre polemiche in Patria), fronteggiando avversità, superando incidenti e persino sacrificando delle vite. Del nutritissimo gruppo originario, solo alcuni valorosi trasvolatori - i due piloti Arturo Ferrarin e Guido Masiero e i loro insostituibili motoristi Gino Cappannini e Roberto Maretto - riuscirono a giungere a destinazione.
L’abbrivio dato da Ferrarin non ha esaurito la sua spinta. La sua opera di staffetta, capace di battere e vincere sentieri nuovi e impervi, non si è mai conclusa, anzi è stata raccolta da chi è venuto dopo di lui.
Nuovi traguardi si sono via via aggiunti nel corso degli anni nella storia del volo, brevissima, ma al contempo ricchissima ed in continua, costante, rapidissima evoluzione. Il prossimo traguardo, quello più vicino, è quello del volo suborbitale ipersonico, che consentirà di avvicinare ancora di più i due capi della mappa, permettendo di raggiungere Tokyo da Roma in un paio d’ore.
Oggi ci troviamo di nuovo di fronte a una sfida storica e tecnica, così come fu per l’Aeronautica di Ferrarin superare l’immensa porzione di mondo che ci separava dall’Oriente. Guardare al modo con cui 100 anni fa sono stati affrontati problemi e difficoltà che apparivano insormontabili ci aiuta così a guardare al futuro, oggi allo Spazio, che è la nostra nuova frontiera, come il cielo lo era nel 1920 per chi ha pensato, preparato e affrontato la sfida del raid Roma-Tokyo.
Anche davanti a noi, come sempre nella storia, c’è un territorio ignoto da esplorare e conquistare, una sfida da affrontare, un salto da compiere.
Come si affrontano queste sfide? Con studio e preparazione, certo: l’ignoto si conquista partendo dal dominio del noto. Ma ciò non basta. Servono determinazione e tenacia, caratteristiche che al Ferrarin e ai suoi compagni d’avventura non mancavano. E mi piace ricordare che questa straordinaria impresa fu dovuta senz’altro anche alla giovane età e alla spregiudicatezza dei suoi protagonisti; se si eccettua il quasi trentenne Maretto, Ferrarin e Masiero avevano 25 anni, Cappannini era poco più che ventenne… l’innovazione è dei giovani e delle menti curiose e tenaci.
Il raid Roma - Tokio richiese un intenso lavoro di squadra e una pianificazione attenta al minimo dettaglio. Fondamentali furono l’impegno e la professionalità di tutti i componenti delle formazioni che decollarono e di tutti coloro che li assistettero in ciascuna fase: tutti egualmente importanti. Gli stessi Ferrarin e Masiero, del resto, dovevano essere in origine dei comprimari, delle staffette, incaricati di battere e predisporre la pista a favore di altri.
«Il pilota non è mai solo». La somma di più contributi ha dato portanza al loro volo, che ha colto il frutto del gioco di squadra, fronteggiando e superando imprevisti e avversità anche critiche grazie ad addestramento, istinto e capacità personali, valorizzando così l’impegno di tutti con il successo dell’impresa, che solo apparentemente è dei singoli.
Le caratteristiche tipiche dell’eccellenza sono profusamente manifestate in tutta l’epopea del raid Roma-Tokyo ed accomunano coloro che ne furono protagonisti. Tra questi è da annoverare anche un oggetto apparentemente inanimato, il “mezzo” dell’impresa, il biplano SVA.9, in realtà recipiente dell’anima, dell’ingegno e degli intenti dei suoi ideatori ed artefici. Nel ricordare questa epica impresa, quindi, non è possibile non parlare dell’industria che lo realizzò.
A Genova c’è un detto: «Se dici Genova dici Ansaldo, ma se dici Ansaldo dici Genova». Un connubio storico e fondante, iniziato nel XIX secolo e perpetuato fino ad arrivare alla Seconda Guerra Mondiale, quando dei 50.000 lavoratori dell’industria genovese oltre il 60% era impiegato presso la Ansaldo, realtà che ha caratterizzato profondamente la vita della città.
All’origine costruttrice di locomotive, poi di navi, con il progresso tecnologico si avventura nell’innovativo e pionieristico settore degli aeroplani, con importantissimi risultati, anche in termini di innovazione e modernità.
Nel tema del viaggio e dell’esplorazione, che occupa una centralità costante in questo percorso crescente, ritroviamo l’impulso che ha sempre caratterizzato questa industria e i genovesi che le hanno dato corpo e vita. «Genuensis, ergo mercator» («Genovese, quindi mercante»): in questo detto è racchiusa l’anima del popolo di Genova. Un popolo, sin dai tempi antichi, di viaggiatori, mercanti e combattenti, mosso da quello spirito di avventura, tenacia e volontà di crescita che troviamo tanto nella storia della Ansaldo quanto nell’impresa portata a termine da Ferrarin e dalla squadra che lo sostenne.
È in questa fucina, umana prima che industriale, che venne forgiato uno dei protagonisti dell’impresa di cui trattiamo: lo SVA.9.
Espressione di una produzione aeronautica nazionale emancipatasi rapidamente dopo una partenza in ritardo, lo SVA era notevolmente più affidabile rispetto alla maggior parte dei modelli dell’epoca.
Grazie a queste imprese, lo SVA.9 è diventato simbolo di un’era e soprattutto di un modo di concepire il volo, riconosciuto da tutti gli aviatori e gli appassionati.
Una visione che, in fondo, accomuna tutti gli aviatori di tutti i tempi e coloro che vivono di volo, impegnandosi quotidianamente nel proprio servizio in molti modi differenti ma sempre accomunati dalla spinta ad andare avanti, a migliorare, a crescere.
È in questo alone romantico, che ci solleva da terra e che ci fa volgere lo sguardo verso un orizzonte lontano, che troviamo e facciamo nostro il retaggio di quegli aviatori, dei loro SVA e di quel raid di 100 anni fa, ne raccogliamo il testimone con riverente rispetto ed ammirazione ma con lo stesso spirito e con la stessa freschezza e passione.
Gen. S.A. Alberto ROSSO
Il Generale di Squadra Aerea Alberto Rosso, nato a Genova il 29 settembre 1959, si è arruolato in Aeronautica Militare nel 1978, con il Corso Urano 3°.
Brevettato pilota militare negli Stati Uniti nel 1983, ha svolto la maggior parte della sua attività operativa quale pilota della Difesa Aerea.
È stato Comandante del 4° Stormo di Grosseto, Direttore del 4° Reparto Manutenzione Velivoli (RMV), assegnato allo Stato Maggiore della Difesa ha ricoperto l’incarico di Capo Ufficio Politica delle Alleanze e successivamente Vice Capo del 3° Reparto, poi Capo di Stato Maggiore del Comando Logistico AM, Capo del 4° Reparto dello Stato Maggiore Aeronautica. Nel settembre 2013 ha assunto l’incarico di Capo del 4° Reparto dello Stato Maggiore Difesa e a seguire Capo di Gabinetto del Ministro della Difesa.
Con Decreto del Presidente della Repubblica, il 31 ottobre 2018 il Gen. Alberto Rosso ha assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare.
Dal 2014 al 2018 è stato consigliere di Amministrazione dell’Agenzia Spaziale Italiana.
Ha al suo attivo oltre 3000 ore di volo, prevalentemente su velivoli monoposto da caccia (oltre 2000 sull’F-104).
Il Gen. Rosso ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Militari Aeronautiche presso l’Università Federico II di Napoli.
Il volo Roma Tokio di Arturo Ferrarin: tra eroismo individuale e impresa collettiva
Nel Roma-Tokyo, il ruolo delle staffette – chiamate a precedere la formazione principale per verificare (e talvolta individuare!) rotte, campi e apprestamenti – esaltò la capacità di Ferrarin di fronteggiare e risolvere gli imprevisti.
Bello, coraggioso, affascinante, abile, in grado di passare con disinvoltura da un raid a una missione commerciale, da una gara di velocità a un primato di distanza: nella memoria collettiva Arturo Ferrarin è il protagonista del volo Roma-Tokyo, l’epica impresa che nel 1920 collegò per la prima volta l’Europa al Giappone per via aerea, coprendo il percorso in 30 tappe giornaliere nell’arco di 105 giorni. A Ferrarin appartiene il centenario, così come suo fu il racconto a caldo.
In realtà, il volo Roma-Tokyo fu un’impresa collettiva sotto ogni aspetto. Nel senso più ristretto, perché sul suo SVA 9 viaggiava anche Gino Cappannini, ufficialmente motorista ma in realtà meccanico straordinario, in grado di trarre d’impaccio Ferrarin in numerose situazioni difficili.
Arturo Ferrarin e Gino Cappannini
Poi perché a Tokyo arrivò anche Guido Masiero, con il suo motorista Roberto Maretto, tradizionalmente collocato un passo indietro per aver raggiunto via superficie alcune località per prelevare aerei di ricambio. Infine, perché al raid parteciparono altri 15 piloti e 8 specialisti a bordo di altri nove aerei, senza trascurare i 25 ufficiali e 57 uomini di truppa dislocati alle varie tappe.
Se la narrazione attuale rispecchia la prospettiva dell’arrivo a Tokyo, è innanzitutto perché la selezione attuata dal durissimo percorso ribaltò l’idea iniziale. L’impresa nacque infatti come una sorta di versione intercontinentale del raid che nell’agosto 1918 aveva visto sette biplani italiani violare impunemente la capitale austriaca: stessi aerei, gli Ansaldo SVA, ora nella versione biposto SVA 9; stessi leader, Gabriele D’Annunzio e Natale Palli; stessi piloti dell’87a Squadriglia “Serenissima”; stesso concetto di volo pacifico di massa. Nonostante i mille cambiamenti intervenuti, a partire dall’epurazione dei dannunziani, la matrice rimase la stessa.
A distinguere le due imprese fu il livello di difficoltà. Dei circa 20 SVA in forza, la Serenissima ne aveva approntati per Vienna 14; di questi, quelli che decollarono effettivamente per Vienna furono 11 e quelli che completarono il percorso appena 7, peraltro subito fermati per una revisione. Di fatto, solo due terzi degli aerei avevano completato una missione di circa 1.000 chilometri in un giorno solo. Anche così, restava il senso di un impegno di squadra. Andare a Tokyo significava percorrere oltre 17.000 chilometri, per di più a ritmo forzato, impresa che un piano assai ottimistico pensava che gli SVA potessero compiere in appena 12 giorni. I Caproni, più lenti, partirono prima, nella prospettiva di giungere comunque insieme alla metà. Entrambi i gruppi subirono incidenti e peripezie varie, e lo spirito collettivo si spense definitivamente quando solo le staffette Ferrarin e Masiero riuscirono ad andare oltre l’India.
Questo non vuol però dire che la dimensione individuale sia stata solo frutto di un processo di selezione tanto naturale quanto casuale. Fin dalla propria ostinata determinazione a partecipare al Roma-Tokyo non appena avutane notizia a Parigi, Ferrarin contribuì in modo decisivo a scrivere la storia del raid, alla creazione della propria carriera professionale e alla nascita della propria leggenda.
Al contrario del cugino Francesco, uno degli quattro piloti della Serenissima che non arrivarono a Vienna, durante la Prima guerra mondiale Arturo si era messo solo limitatamente in mostra. Nato nel 1895, sesto di sette figli, si diplomò ragioniere, presumibilmente in vista dell’ingresso nell’impresa laniera di famiglia. Richiamato allo scoppio della guerra, si offrì volontario per il Battaglione Aviatori e, dopo alcuni mesi come mitragliere in una squadriglia da difesa a Verona, nel 1916 si brevettò pilota alla scuola Gabardini di Cameri. Fu quindi riassegnato come istruttore alla scuola di Cascina Costa, accumulando un’esperienza non comune che gli tornò utile quando, nel dicembre 1917, giunse all’82a Squadriglia Caccia, dove ottenne una medaglia d’argento per due vittorie in combattimento aereo, peraltro non confermate nella verifica postbellica.
Nel Roma-Tokyo, il ruolo delle staffette – chiamate a precedere la formazione principale per verificare (e talvolta individuare!) rotte, campi e apprestamenti – esaltò la capacità di Ferrarin di fronteggiare e risolvere gli imprevisti. Dall’audace fuga dai Baluci alla decisione di abbandonare Calcutta senza attendere l’ormai improbabile arrivo degli altri SVA, Ferrarin trasformò gradualmente l’impresa da collettiva in individuale. La metamorfosi si completò con la separazione dei due piloti – Ferrarin in Italia, Masiero in Cina per riprendere i contatti per una fornitura di SVA. Acutamente consapevole del valore della promozione, Ferrarin reagì al disinteresse ufficiale con una serie di conferenze sul raid, la realizzazione di un documentario (proiettato davanti al re e alla regina, nonché nelle conferenze di Roma e Genova) e la pubblicazione del libro Il mio volo Roma-Tokio (stralci del quale uscirono in anteprima su La Stampa nel giugno 1921).
Alla costruzione della leggenda del pilota non fu probabilmente estranea l’Ansaldo, che si era affrettata ad assumerlo come collaudatore, nella consapevolezza del suo duplice valore professionale e promozionale. Il rapporto con l’industria, conclusosi nel 1928, permise a Ferrarin di arricchire il suo curriculum con ulteriori esperienze e affermazioni prestigiose come i primati mondiali di durata (58h 43’) e distanza in linea retta (7.188 km) conquistati nel 1928 su Siai Marchetti S.64. La dimensione strettamente individuale del suo approccio venne alla luce nel 1930, quando il sottosegretario all’Aeronautica Italo Balbo accelerò la trasformazione della Regia Aeronautica in senso collettivo. Lo scontro, del quale resta testimonianza in un duro scambio epistolare, sanciva la fine dell’epoca delle “primedonne” di talento a favore dei professionisti bene addestrati. La stessa filosofia, insomma, che era stata alla base del Roma-Tokyo, senza riuscire a saldarsi con materiali e organizzazione di qualità adeguata. Dopo un ulteriore scontro con la Fiat, legato alla morte di Edoardo Agnelli su un idrovolante pilotato proprio da Ferrarin, il grande pilota proseguì la propria carriera di collaudatore presso aziende minori, fino al tragico incidente che gli costò la vita a Guidonia nel 1941.
Si ringrazia l’Archivio fotografico TA Aeronautica Militare per alcune delle immagini di questo articolo
Gregory Alegi
L’ampio balzo verso il Giappone: gli ingredienti di un’impresa
“il sogno di un poeta ha avuto la sua realizzazione. Dalla civiltà secolare di Roma alla civiltà secolare del secolare Impero del Sol Levante… Noi, aviatori, siamo tutti un po’ pazzi! Luci, solitudine ed orgoglio”
Ricordo sempre - non le ho mai dimenticate - le parole del mio istruttore, un esperto maresciallo pilota con vivide esperienze di guerra, che mi diceva: “vedi, per aria bisogna andare sempre organizzati”. Voleva semplicemente dire che una buona pianificazione del volo costituisce una indispensabile componente del successo.
Significa sapere sempre, momento per momento, cosa ‘si deve fare’, stando figurativamente sempre ‘davanti’ all’aeroplano.
Questa è una regola aurea anche nella vita. Per raggiungere qualsiasi risultato o obiettivo è indispensabile seguire un processo o un percorso ben pianificati. Con passione.
La componente ‘fortuna’ certamente è una categoria scaramantica per gli aviatori, ma che va tuttavia machiavellicamente ‘aiutata’ attraverso la pianificazione, le ‘skills’, l’addestramento, la gestione del rischio e il tempestivo ‘decision making’.
Il Ten. Arturo Ferrarin questo lo sapeva molto bene.
Arturo Ferrarin e lo SVA
Ammette pure, alla vigilia del raid Roma - Tokyo “che è una pazzia e che ho una probabilità minima di vincere! Ma io ho un’incognita in mio favore: la mia fortuna. Non sapete quanto sia grande la mia fortuna!” Poteva però fare anche affidamento sul suo “vecchio istinto di volatore, già raffinato negli aspri voli di guerra, poi nei lunghi voli attraverso l’Europa”. Non si sbagliava.
Certamente il ‘copyright’ dell’impresa in Estremo Oriente spetta a Gabriele D’Annunzio insieme a Harukichi Inoue Shimoi, letterato giapponese, sincero ammiratore dell’Italia, della sua cultura e “ardito” nel 1917 sui campi di battaglia della Grande Guerra. L’avvallo politico poi giunge sia per “allontanare” il Vate dall’Italia, in una stagione di rivendicazioni ‘fiumane’ ma anche per mostrare al mondo gli eccezionali progressi del mezzo aereo, le impeccabili realizzazioni dell’Ansaldo e le potenzialità dell’industria aeronautica nazionale. D’Annunzio però non prenderà parte al ‘tour’.
Ciò che il Ten. Ferrarin realizzò insieme al ‘Picinin’, il suo caro motorista, Gino Capannini, (18.000 km in 30 tappe, per 112 ore di volo, alla velocità media di 160 km/h) resterà ineguagliato. La ‘crew coordination’, vale a dire l’efficacia condivisa delle azioni che entrambi dimostrarono nell’impresa, rappresentò già allora un indispensabile elemento di successo.
Affettuosamente lo descrive “quel piccolo uomo rannicchiato tra me e il motore, è il mio motorista …in nessuno vidi mai tanto amore per il motore. Essi vivevano insieme”. Si riferisce allo S.P.A. 6 cilindri, montato su di una ‘cellula’ già piuttosto ‘usurata’, portato a sviluppare realmente 180 CV invece di 220 poiché limitato di compressione (con consumi inferiori ma pericolosamente con meno potenza a pieno carico in decollo). Con un serbatoio ridotto da 440 litri a 330, riducendo l’autonomia di volo a circa 7 ore.
Nel 1920 la ‘tecnologia’ poteva mettere a disposizione un biplano in legno e tela, prodotto a Genova dalla Ansaldo, progettato su rigorose basi tecnico-scientifiche da due “eminenze” dell’epoca, entrambi ingegneri del Genio Aeronautico, Umberto Savoia e Rodolfo Verduzio, realizzato con metodologie allora all’avanguardia.
Ferrarin conosce e ama il suo SVA 9; non è nuovo, ha già parecchie ore di volo, dal “corpo tozzo e agile, affusolato di sotto come il ventre di un pesce… la testa è forte e dritta… È la macchina più potente che ci sia”.
In realtà, i giovani Ferrarin e Capannini, insieme al Ten. Guido Masiero e al motorista Roberto Maretto, nell’organizzazione del raid dovevano svolgere il ruolo di ‘staffetta’; precedere la formazione, composta da quattro bombardieri Caproni (2 Ca-33, 1 Ca-44 e un Ca-40) e altri cinque SVA 9, presso gli aeroporti pianificati ed accertarne il completo supporto tecnico e logistico dopo l’atterraggio; velivoli, motori di scorta e parti di ricambio erano state predisposte presso alcune basi principali (Bassora, Calcutta, Canton e Shanghai), con il supporto di ‘personale di tappa’ del Regio Esercito e unità della Regia Marina nei porti più importanti, lungo il percorso.
Ferrarin e Masiero
Purtroppo i velivoli di questa formazione ‘dissimilar’, si direbbe oggi in gergo aeronautico, a cominciare dai lenti e fragili Caproni, dovettero rinunciare, a causa di avarie e incidenti, già nelle prime fasi del raid. Ferrarin e Capannini saranno gli unici che raggiungeranno Tokyo in volo.
È estremamente interessante leggere la relazione che il Ten. Ferrarin compila per la Direzione Generale d’Aeronautica (D.G.A.), al rientro dalla lunga missione. Trasuda concretezza e soprattutto ‘familiarità’ di problemi che, pur in un contesto tecnologico e organizzativo assai diverso, sono sempre di attualità.
Ferrarin pianifica le tappe, ‘plottando’ prue e velocità, raccoglie le carte nautiche e geografiche, sa che dovrà navigare sempre ‘a vista’, in contatto con il suolo o sul mare, a quota inferiore ai 2000 metri, usando l’orologio e la bussola, correggendo la deriva per il vento, la turbolenza a bassa quota, il freddo e le ‘imprevedibili’ condizioni meteorologiche transcontinentali; annoterà poi che “fosse mancanza di pratica per parte mia, fosse la bussola non perfettamente esatta, o leggermente smagnetizzata dalla massa di ferro del motore, avevo dovuto constatare che mi sarebbe stata di aiuto non sicuro per la direzione”. Però il suo “vecchio istinto di volatore già raffinato negli aspri voli di guerra, poi nei lunghi voli attraverso l’Europa” non lo tradisce.
Decollano, “con le ali ancora fresche di vernice”, dall’aeroporto di Centocelle in un freddo e brumoso San Valentino, il 14 febbraio 1920, insieme allo SVA di Masiero e Maretto. Ma i due percorreranno le tratte della rotta in maniera piuttosto autonoma, scegliendo a volte rotte differenti.
La prima parte del percorso scorre sul mare, dove mancano i riferimenti, l’orizzonte spesso svanisce pericolosamente a tinta unita e il corretto equilibrio di prua-bussola, orologio e correzione deriva qualificano il buon navigatore che trova la terra dove posare le ruote. È costretto spesso a scendere anche a 100 piedi (30 metri) per evitare di entrare in nube e mantenere il volo ‘a vista’. Anche di notte. Gioia del Colle, Valona, Salonicco. Sull’arcipelago greco, deve contrastare un forte vento di tramontana che tende a spingerlo a Sud e nota “non è prudente correre il rischio di partire dall’Europa per l’Asia ed andare a finire in Africa”.
Lasciata la Grecia si attraversa la Turchia, a Smirne, dove è ancorata la RN Bixio e poi da Antalya si procede per la Siria, ad Aleppo. Protagonista della tratta è il freddo pungente “due fili di aria diaccia, attraverso la cuffia di volo non foderata di pelliccia”.
A Baghdad “atterro in mezzo ad una partita fra ufficiali e soldati inglesi e i nostri addetti di tappa, mentre una folla enorme e commossa si precipita sul campo” poi Bassora, accolto con calore presso la base aerea dagli aviatori inglesi.
Con rotta Sud-Est si va verso il Pakistan e la stagione delle piogge, Bandar-Abbas, Ciaubar e Karachi, sotto un cielo plumbeo. Poi in India con la tratta più lunga e un caldo umido asfissiante, 1100 chilometri, atterra a Dehli, a corto di carburante, fuori campo, ma nell’oscurità della notte tropicale danneggia l’assale del carrello; vede lo SVA di Masiero al parcheggio, che lo aveva anticipato.
Il giorno dopo, riparato il carrello, raggiungono lungo il fiume Gange Allahâbâd, Ferrarin ammette “Sono stanco. Devo purtroppo riconoscere che la lunga volata mi ha esaurito”; da qui Calcutta, dove per mancanza di segnalazione sul campo rischia di investire alcune mucche. A Calcutta è costretto a cambiare velivolo ed attendere 20 giorni in attesa di comunicazioni dalla D.G.A. Ha modo di portare in volo giornalisti e autorità indiane che apparivano piuttosto scettiche su velivolo e finalità del raid. Riprende il volo per Akiab e atterra in Birmania, a Rangoon. Finalmente in Indocina, a Bangkok dove viene festeggiato dagli aviatori siamesi. Raggiunge poi Hubon e di seguito nel Tonchino, ad Hanoi, dove ottiene cordiale assistenza dai colleghi francesi. Con prua Nord-Est varca il confine con la Cina, raggiunge Canton, dove miracolosamente Capannini ‘rianima’ il motore e Foochow, quindi Shanghai e Pechino, dove assistono ad entusiastiche e calorosissime manifestazioni di ammirazione ed affetto.
Siamo a metà maggio, la meta si avvicina. Decollo per Kow Pangtzu, in sequenza Sinuiju, Seul e Daegu in Corea, accolto dalla popolazione coreana e giapponese.
Ultimo balzo verso il Giappone, Ferrarin e Capannini raggiungono Osaka atterrando sulla piazza d’ Armi e finalmente il 31 maggio, dopo 92 giorni, a Tokyo, dove saranno gli unici a raggiungere la meta in volo, mettendo le ruote dello SVA 9, ‘matricola’ militare 12736, sul parco Yoyogi.
Masiero e Maretto, che li avevano anticipati di un’ora e un quarto, erano stati costretti da Delhi a raggiungere Calcutta in nave, dove avrebbero trovato un altro velivolo per proseguire.
Seguirono 42 giorni di entusiastiche celebrazioni.
Ferrarin chiosa “il sogno di un Poeta ha avuto la sua realizzazione. Dalla civiltà secolare di Roma alla civiltà secolare del secolare Impero del Sol Levante”. “Noi, aviatori, siamo tutti un po’ pazzi! Luci, solitudine ed orgoglio”.
E conclude “Tentai con ardore. Vinsi per fede”.
Fu un formidabile precursore e protagonista del tumultuoso progresso aeronautico avviato nel primo dopoguerra e degli importanti traguardi professionali raggiunti poi dalle crociere aeree della Regia Aeronautica.
Tuttora lo SVA, del quale la Fondazione possiede una preziosa ricostruzione, ha assunto per Ansaldo e l’imprenditoria aeronautica nazionale una forte valenza iconica, che merita di essere costantemente valorizzata, in un periodo di grande fermento per la città di Genova e della Liguria, cui Ansaldo ha dato robuste ali.
Si ringrazia l’Archivio fotografico TA Aeronautica Militare per alcune delle immagini di questo articolo
Cronache dell’atterraggio ad Aleppo
Salvatore Gagliano
Uomini e macchine: lo SVA e Gabriele D’Annunzio
il capitano Bourlot pensa e mi dice che in pochi giorni lei (l’ing. Brezzi ndr) possa compiere il prodigio e, trasformando le ali, dare all’apparecchio una più lunga potenza di volo. Di questo volevo parlarle. Le mie sorti sono nelle sue mani sapienti
Era da tempo che Gabriele D’Annunzio meditava l’impresa del sorvolo su Vienna, lanciando dal cielo migliaia di manifestini tricolori contenenti una provocatoria esortazione alla resa ponendo fine al lungo conflitto. Da allora si preparava attraverso allenamenti pericolosi e faticosissimi e non perse mai fiducia neanche dopo la ritirata di Caporetto che allontanava la meta di circa 400 km di percorso in mano nemica.
Nel frattempo lo SVA si affermava quale mezzo aereo affidabile e ideale per missioni in profondità, di lungo raggio e durata. Il nuovo apparecchio rendeva quindi ancor più prossima l’ora in cui avrebbe realizzato il sogno.
Scrive all’ing. Brezzi direttore dei Cantieri Aeronautici Ansaldo: “il capitano Bourlot pensa e mi dice che in pochi giorni lei possa compiere il prodigio e, trasformando le ali, dare all’apparecchio una più lunga potenza di volo. Di questo volevo parlarle. Le mie sorti sono nelle sue mani sapienti”. Per l’impresa il capitano Bourlot avrebbe dovuto essere il pilota, ma un tragico destino gliela negò. Il Poeta, affranto, scrive “Andai a vederlo, a Marcon, la mattina dopo. Andai a portargli la mia anima e i miei fiori. Per la prima volta scorsi, nella sua maschera straziata, il rilievo della sua energia. In vita la sua bontà e la sua modestia dissimulavano la sua potenza”.
“Chi sarà il mio compagno?”. La risposta fu: il capitano Natale Palli da Casale, un asso dell’aviazione, poco più che ventenne capace di compiere rischiosissime missioni di ricognizione che compiva da solo, lontane in territorio nemico: le condizioni avverse non gli impedivano di toccare sempre la sua meta, di ritrovare sempre, al ritorno, il suo campo. D’Annunzio lo chiamò successivamente il “compagno portentoso, l’aquila infallibile dagli occhi chiari”.
Presero parte alla spedizione altri sette apparecchi oltre quello del capitano Palli e del maggiore D’Annunzio, comandante della squadriglia Serenissima con l’effigie del Leone di San Marco sui fianchi. C’erano Locatelli, Massoni, Finzi, Sarti, Ludovico Censi, Granzarotto e Gino Allegri.
Ingresso al grande salone del Cantiere Aeronautico decorata in onore dei piloti della squadriglia
Alle 5.50 partirono dal campo volo nei pressi del Castello di San Pelagio a Due Carrare, nella pianura veneta. Il tempo era incerto, velato da mobili nubi caliginose. Dei palloncini sonda lanciati nell’aria avevano rilevato forti correnti al di sopra dei mille metri di quota. Ma la decisione era stata presa. Sfidando ogni avversità, la squadriglia partì prendendo quota, scomparendo in direzione Venezia.
Coloro che avevano assistito alla partenza rimasero a lungo a guardare quel cielo che pareva lontano e che pure era ancora Italia. Di là, quanta terra nemica da sorvolare! Ogni tanto qualcuno guardava l’ora e diceva: “Hanno passato l’Isonzo… Passano sul Monte Nero… Passano la Drava. Sono in vista di Klagenfurt… Devono essere già su Althofen. Passano sul Mur. Danno la sveglia a Gratz. Sono già sui monti della Stewermark … passano sul Windberg e sullo Schussberg. Si avvicinano a Neustaldt. Ancora mezz’ora…ancora venti minuti”.
Man mano che il tempo passava, le parole si facevano sempre più rade, più ansiose.
Ad un tratto qualcuno esclamò: “Sono su Vienna”, e nessuno seppe più dire nulla.
Il sorvolo su Vienna e il volantinaggio
È mezzogiorno, il campo volo si è affollato. È giunto il generale Bongiovanni, comandante Generale dell’Aeronautica con altri ufficiali. L’attesa si fa nervosa. Erano passate sei ore dalla partenza della squadriglia. Sguardi impazienti frugavano il cielo su cui sempre più una bianca foschia si addensava.
Mezzogiorno e mezza: una voce grida: “Ritornano! Uno è già in vista!”
Lontanissimo, infatti, un apparecchio era apparso. Uno solo. E gli altri? Due, e altri due e ancora un altro, in fondo.
Il primo apparecchio arrivò sul campo descrivendo in aria due capriole gioiose: segno di vittoria. Leggero, leggero con una manovra perfetta atterrava: era il tenente Censi accolto da un fragoroso, frenetico applauso. Un minuto dopo un altro scendeva: il biposto del comandante D’Annunzio e del capopattuglia Palli. Tutto il campo fragoreggiava di applausi. I compagni abbracciavano i compagni che scendevano, infagottati negli indumenti di volo, dagli apparecchi, vittoriosi in mezzo a un delirio di evviva e saluti.
Così recita il messaggio lanciato dal Vate su Venezia di ritorno da Vienna: “La squadriglia di nome Serenissima, tornando dall’aver portato nel cielo di Vienna il segno sempre fausto del Leone dipinto su i fianchi delle sue fusoliere da battaglia, getta un saluto d’amore e d’orgoglio a Venezia la Bella che fu sempre veduta sorridere nel lungo volo tra ala ed ala, protettrice adorabile. 9 agosto 1918 Gabriele D’Annunzio”.
Lo stormo di SVA aveva compiuto tra andata e ritorno un percorso di mille chilometri di cielo in sei ore e mezzo.
PS: è doveroso, in questa occasione del 100mo anniversario del raid Roma Tokio, ricordare e rendere omaggio al capitano Natale Palli il cui destino fu tragico davvero.
Pluridecorato, medaglia d’oro al valor militare, perì l’anno dopo l’impresa su Vienna, la notte del 23 marzo 1919, a soli ventiquattro anni, assiderato dopo un atterraggio di emergenza in Alta Savoia mentre partecipava al raid Padova Roma Parigi Padova da compiersi in una sola giornata.
D’Annunzio presenziò ai funerali solenni, tra una folla immensa, e recitò l’orazione funebre “… era senza colpa, era senza macchia, senza ombra… s'è egli addormentato nella neve e sopra la più candida delle nuvole …”
Lorenzo Fiori, Direttore Fondazione Ansaldo
SVA 5: Un semi-originale pronto al decollo
“Un progetto impegnativo che riesce grazie alla collaborazione di istituzioni diverse ed all’apporto spontaneo, gratuito e spesso entusiastico di esperti, tecnici, studiosi e di semplici appassionati”
Come il transatlantico REX del nastro azzurro o la celebre locomotiva Sampierdarena del 1854 per la linea Torino-Genova, anche il biplano SVA è stato e continua ad essere, nella nostra storia, un manufatto di alto valore simbolico.
Il prototipo prima del restauro
Un aereo entrato nell’immaginario collettivo non tanto per le capacità progettuali e costruttive necessarie per realizzarlo in migliaia di esemplari durante la Grande Guerra ma, soprattutto, per le stupefacenti imprese belliche e post belliche che lo hanno visto come protagonista indiscusso, dal raid su Vienna di Gabriele D’Annunzio al raid aereo Roma – Tokio di Arturo Ferrarin.
Non c’è dunque da stupirsi se, nel 1987, con una Ansaldo impegnata nel recupero e nella salvaguardia del proprio patrimonio di memoria industriale con iniziative importanti come quella dell’Archivio Storico, si dia avvio ad un progetto di ricostruzione dell’aeroplano.
Un progetto impegnativo che riesce grazie alla collaborazione di istituzioni diverse ed all’apporto spontaneo, gratuito e spesso entusiastico di esperti, tecnici, studiosi e di semplici appassionati.
Operazioni di pulitura
Disegni costruttivi ed altri documenti d’epoca, dati, informazioni e tante parti originali confluiscono così da tutta Italia verso l’Ansaldo e permettono di realizzare - insieme alla ditta S.S. V.V. (Sezione Sperimentale Volo a Vela) di Peschiera Borromeo guidata da Felice Gonalba - un semi-originale più che una replica. Un semi-originale così strutturalmente accurato e affidabile che un paio di temerari piloti si offriranno, in più occasioni, di pilotare.
Operazioni di falegnameria
È impossibile qui elencare tutto quello che ci è pervenuto.
Verniciatura
Molte sono le parti metalliche originali impiegate nella fusoliera, nelle ali normali e ridotte, nell’impennaggio di coda, nel carrello etc. Dobbiamo necessariamente limitarci ai pezzi di maggior consistenza, più significativi; parliamo di parti come, ad esempio, il motore SPA 6 A da 220 CV costruito nel 1917 dall’Ansaldo Fabbrica Motori di Sampierdarena, che ci è stato ceduto in comodato dal Comune di Faenza dove era conservato sin dal 1917; dell’elegante elica che abbiamo acquisito a Londra, dalla Christie’s South Kensington Ltd; il serbatoio dell’olio che proviene dal Museo S. Pelagio; le principali parti della trasmissione provengono sia dall’Istituto di Meccanica del Politecnico di Milano per interessamento del Prof. Andrea Curami sia dal Museo Aeronautico Caproni di Taliedo grazie alla contessa Maria Fede Caproni, una delle animatrici del progetto insieme a Umberto Donati, Direttore Relazioni Esterne dell’Ansaldo di quegli anni; ricordiamo, ancora, il monumentale radiatore, perfettamente conservato da un privato cittadino, il signor Di Giulio, presso la propria abitazione di Roma ; il seggiolino, che ci è stato donato dal Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto e, infine, le ruotine che sono state recuperate quasi al termine del lavoro di ricostruzione a seguito di una caparbia ricerca del Gruppo Amici Velivoli Storici (GAVS) di Torino.
Il seggiolino dono del Museo Storico della Guerra di Rovereto
Un grande ed encomiabile lavoro di squadra che ha reso onore agli allora ideatori del velivolo, gli ufficiali Savoia e Verduzio della Direzione Tecnica dell’Aviazione Militare, e al realizzatore, l’ing. Giuseppe Brezzi Direttore dei Cantieri Aeronautici Ansaldo con le maestranze degli stabilimenti liguri.
Oggi, lo SVA 5 semi-originale è visitabile all’Aeroporto Cristoforo Colombo di Genova: pronto al decollo!
Alessandro Lombardo
Fondazione Ansaldo
Villa Cattaneo dell’Olmo, Corso F.M. Perrone 118, 16152, Genova, Italia
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