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17 gennaio

Storiella Corretta col ferro e col colore

Di Marco Kuveiller, Human Touch Media srl

A metà degli anni ’80 avevo iniziato la collaborazione con l’ufficio audiovisivo dell’IRI. Ero arrivato lì sulla scia di una grande passione per la documentaristica avendo iniziato molto giovane a realizzare servizi fotografici, documentari per la Rai e per molte importanti aziende di engineering e per altri enti nazionali.

Per l’IRI dovevo realizzare le “Video News”, una sorta di brevi notiziari tecnico-scientifici divulgativi sulle attività di ricerca e quelle industriali dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale. A quei tempi l’IRI era un colosso che impiegava più di mezzo milione di persone e che raggruppava la maggior parte delle grandi imprese e delle grandi finanziarie del Paese nei campi più disparati: dalla meccanica all’elettronica, dall’aerospazio alla produzione e distribuzione alimentare, dalle telecomunicazioni, al ferroviario e alla formazione e tanti altri settori importati.

Io, in nome e per conto della finanziaria di Stato, giravo l’Italia, e non solo, per raccogliere interviste e fare riprese sulle eccellenze tecnologiche di queste imprese, scoprendo universi di competenze e di innovazione incredibili e assolutamente sconosciute alla maggior parte del popolo italiano.

Cerimonia di presentazione del documentario IRI

Cerimonia di presentazione del documentario IRI "Una formula per il progresso" presso la fiera di Genova, 1967

Tra queste c’era la Finmeccanica, oggi Leonardo.

Non sto qui a descrivere i numerosi ambiti industriali della Finmeccanica. Ma tra questi ce n’era uno che mi incuriosiva particolarmente. Era l’Ansaldo. L’Ansaldo nasce nel 1853 a Sampierdarena. Una storia lunga ricca di storie. Come testimonianza del vissuto di una nazione, quella azienda aveva realizzato quella che si può definire una rivoluzione industriale italiana, i cui interpreti erano state migliaia di persone, quelli che vengono chiamati operai, ognuno con la propria storia, la propria individualità.

Dovevo intervistare un operaio “anziano” uno di quei pochi ancora in vita che potesse raccontare di come era l’Ansaldo dopo la Prima guerra mondiale. Mi propongono di fare l’intervista presso Villa Cattaneo dell’Olmo, a Genova, un posto bellissimo, sede di quello che allora era l’Archivio Storico Ansaldo e che oggi è Fondazione Ansaldo.

Scopro lì un immenso archivio di immagini fotografiche e filmati. Amante di archeologia industriale come ero, ero capitato proprio nel posto giusto, come un bambino in una fabbrica di cioccolata.

Conosco Alessandro Lombardo, il direttore, con cui organizzo l’intervista e nasce subito tra noi una intesa bellissima, che esiste anche ora dopo tanti anni. Mi viene concesso di esplorare l’archivio per il tempo che ritengo necessario. Già dai primi momenti vengo posseduto da una brama visiva irrefrenabile. Avrei passato mesi a osservare le testimonianze visive di più di 150 anni di storia, foto, e dai primi anni del ‘900 anche i filmati, e documenti, testimonianze, scritti, disegni, una quantità infinita di cose da conoscere. In quegli anni non c’era un grande interesse “popolare” per questo tipo di documenti ma io avrei voluto trasferirmi in quell’archivio, giorno e notte, per vedere tutto.

Trovai in seguito i motivi più fantasiosi per tornarci il più possibile, al punto che a volte mi sentivo un po’ fuori luogo, come chi ha paura di abusare dell’ospitalità di qualcuno, ma andò sempre molto bene, fui accolto sempre con cortesia e attenzione, e questo non lo dimenticherò mai.

016424 Colorizzazione Kuveiller
Immagine colorizzata da Marco Kuveiller, proveniente dalla fototeca di Fondazione Ansaldo e raffigurante lo Stabilimento Elettrotecnico di Cornigliano, 1920

Un giorno Laura, una gentilissima borsista che lavorava in questo archivio, mi disse:

<<Ma ha mai visto “Col ferro e col Fuoco”?>>

Le risposi di no e chiesi di cosa si trattasse. Lei mi rispose che era un documentario del 1926, commissionato dall’ILVA a due autori, Giovanni Ceccarelli e Eugenio Fontana, i quali avevano impiegato più di due anni a girarlo, che il montato durava circa 4 ore, che era muto e che i cartelli erano stati redatti in uno stile poetico dannunziano.

Anche per me, devoto e amante del cinema e in genere delle immagini, poteva risultare difficile vedere un’opera di quella lunghezza e per giunta senza sonoro. Invece la vidi tutta e, nelle varie visite, più di una volta, e a ogni visione mi piaceva di più.

Le inquadrature raccontavano molto di più che se ci fosse stato un testo “descrittivo”. Invece i cartelli, composti con uno stile retorico, quasi buffo, in realtà creavano un intermezzo ideale per godere delle immagini. Man mano riuscivo a calarmi nelle atmosfere che venivano fuori fortissime dalle immagini e che mi prendevano nel profondo. “Col Ferro e Col Fuoco” era diventata per me, in quell’archivio, una presenza viva, una attrazione fatale.

Un giorno, durante l’ennesima visione, ebbi l’impressione per un tempo abbastanza lungo che il film fosse a colori, lo “vedevo” a colori. Era in bianco e nero ma l’evocazione era talmente forte che era riuscita a farmi vedere anche i colori di quella realtà. Sembra uno scherzo ma è andata proprio così.

Improvvisamente nacque dentro di me il desiderio di dargli colore e decisi di capire come fare a colorare quelle scene. Ma eravamo nei primi anni ’90, i primi PC erano nati pochi anni prima e avevano meno potenza di un orologio da polso attuale. Missione impossibile.

Da quel momento non smisi mai di cercare una tecnica e una tecnologia per poter realizzare questo sogno e, a lato del mio lavoro, continuai la mia ricerca, di frequente preso per un pazzo che cerca di fare una cosa inutile e, per giunta, con nessuno sbocco commerciale.

Nel 2010, molti anni dopo, convinsi alcuni miei collaboratori (avevo una casa di produzione dal 1980) a sperimentare tecniche di colorizzazione  di cui si parlava in ambiti specializzati. Avevamo compiuto esperimenti andati anche a buon fine, i computer erano enormemente più potenti, erano disponibili software che messi insieme davano la possibilità di creare una procedura in grado di generare sequenze a colori. Sapevamo come poter colorizzare le sequenze, ma fotogrammi – mi ricordo che facemmo un esperimento su una scena di appena 20 secondi e impiegammo tre giorni. Da lì a pensare di colorizzare ore di repertorio, era più che un azzardo, per i tempi, per i costi, e anche per i risultati che a me non soddisfacevano affatto. Era un abito in cui operavano meno di una decina di soggetti nel mondo e comunque nessuno in Italia.

In quegli anni c’erano in India stabilimenti che, forti di un costo della manodopera irrisorio, colorizzavano “in massa” le scene in bianconero delle serie indiane famose con risultati pittoreschi, in Francia c’era, e c’è tuttora, una società ben avviata che già vendeva servizi di colorizzazione. Esistevano altre realtà in Europa e nel Mondo. Ma non erano molte. Esisteva qualche software adattato, molto poco controllabile ma comunque dedicato soprattutto alla colorazione delle foto, non certo a quella delle sequenze filmate. Si aveva notizia di un sistema, venduto (forse) a prezzi impossibili che, immagino, avesse quei costi proprio per non essere acquistato. La colorizzazione era veramente un servizio di nicchia estrema e non poteva essere studiato e messo in commercio un software che sarebbe stato venduto a troppi pochi soggetti.

Noi avevamo capito come colorizzare ma non avevamo fatto che prove sperimentali e comunque era impossibile colorare “Col Ferro e Col Fuoco”: sarebbero serviti anni e fiumi di denaro per colorizzare centinaia di migliaia di fotogrammi (quattro ore girate alla velocità di 16 fotogrammi al secondo si compongono di più di 400.000 fotogrammi) per non contare poi che la scansione digitale non era ancora a livelli adeguati per quel tipo di lavorazioni. Andavano ancora elaborate procedure specifiche e a quel tempo eravamo all’inizio. Ma dedicavo sempre del tempo a fare prove, a studiare procedure. Andavo e andavamo avanti anche perché ero riuscito a convincere alcuni miei collaboratori.

L’occasione arrivò nel 2013. Bisognava colorare 40 minuti, ovvero 56.000 fotogrammi di scene di guerra, della Prima guerra mondiale, da inserire in un film a soggetto coprodotto da Baires Cinematografica e Istituto Luce, per la regia di Leonardo Tiberi. Le scene erano molto deteriorate e la qualità di ripresa, trattandosi di documentari di guerra, non era delle più raffinate. Il materiale aveva subito danneggiamenti in quasi 100 anni di vita e poi era stato restaurato con i mezzi disponibili anni prima.

Gettai, e gettammo insieme ai miei, il cuore oltre l’ostacolo, firmai un contratto che obbligava a trovare una soluzione, pena un’onta professionale indelebile. L’anno successivo, nel 2014, uscì nelle sale “Fango e Gloria” il primo film italiano colorizzato in Italia. Ancora oggi non so come ci siamo potuti riuscire. E fu anche una grande soddisfazione e onore. Il film racconta la storia del Milite Ignoto. Alla fine di agosto venne proiettato nell’ambito del festival di Venezia. L’avventura era finalmente partita. E avevamo raggiunto questo obiettivo da soli, senza l’aiuto di nessuno.

Da allora abbiamo realizzato molti altri film e documentari. Nel 2020 abbiamo eseguito la colorizzazione della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 a piazza Venezia utilizzando nuove tecniche, nuove procedure con l’impiego di algoritmi.

Nello stesso anno, in collaborazione con Lazio Innova e con Cinecittà, abbiamo creato Lazio Film Production Lab, un laboratorio per la formazione di giovani per creare, all’interno di Cinecittà, un polo italiano di eccellenza per la colorizzazione e attualizzazione dei repertori storici. Per ora sono state tenute due sessioni di corso, ma spero che, dopo l’interruzione creata dal Covid, si potrà ripartire con questi laboratori di formazione.

Fino ad oggi abbiamo colorizzato molto materiale per filmati nazionali e internazionali e siamo ancora in corsa per migliorare le tecniche, elaborare nuove procedure per fornire un prodotto migliore competitivo anche nei costi, comunque elevati.

Oggi siamo partner dell’Istituto Luce per nuovi progetti e produzioni, ma abbiamo anche iniziato, dal 2021, a collaborare con Fondazione Ansaldo. Abbiamo pensato insieme alcuni interessanti progetti e abbiamo anche già realizzato produzioni, come Uomini Donne e Macchine, un racconto sul rapporto degli umani con ciò che è non umano per la produzione di beni e servizi, dalle prime interazioni a quelle di oggi. Questa produzione mi ha emozionato perché finalmente potevo, insieme a i miei collaboratori e alla Fondazione, iniziare a coniugare i contenuti visivi di quell’archivio conosciuto più di 30 anni fa con i temi della storia industriale ai quali ho dedicato gran parte della mia carriera. Perché, dietro alle macchine ci sono storie di vita.

Ritorno all’inizio: attualizzare “Col Ferro e Col Fuoco” con un restauro adeguato e una colorizzazione di grande impatto non è più un sogno impossibile.

Si può fare, e mi sto impegnando affinché questo possa avvenire quanto prima. Sono sicuro che riuscirò a vedere compiuto questo mio desiderio nato più di 35 anni fa. È un debito verso questa pellicola perché tutto quello che abbiamo realizzato finora con la colorizzazione dipende da quell’incontro con un documentario abbastanza sconosciuto del 1926. Il primo documentario industriale italiano.

MESSINA 1912 C