24 agosto
La Città delle Colonie
di Massimo Bottini
di Massimo Bottini
Massimo Bottini, consigliere nazionale AIPAI e curatore della mostra “Colonie Marine. Ipotesi per la conoscenza e la tutela del patrimonio storico del moderno”, ci racconta della “Città delle colonie”.
Una striscia lunghissima di costa adriatica che va da Cervia in provincia di Ravenna, a Cattolica in provincia di Rimini; l’ultimo censimento dell’IBC dell’Emilia Romagna ne ha contate 244. Il regime fascista dalla fine degli anni Venti del secolo scorso ne costruì tante e ovunque: in montagna, ai laghi e al mare; se nel 1927 i bambini ospitati erano solo 54.000, nel 1935 il numero lievitava a 568.681 e le colonie tra marine, montane e campestri diventavano 3128, fino a raggiungere nel 1938 la quota di 4357.
Esse furono dei veri e propri “incubatori” di nuove generazioni più sane e quindi più forti, la talassoterapia e l’elioterapia fino ad allora cure riservate solo alle classi più abbienti venivano diffuse ad un gran numero di persone. Accanto alla funzione sanitaria c’era quella sociale-educativa, ai piccoli venivano insegnati i principi del regime.
Pannello della mostra “Colonie Marine. Ipotesi per la conoscenza e la tutela del patrimonio storico del moderno.”,
a cura di Massimo Bottini
Il modo migliore per comprendere la “Città delle colonie” è quello di percorrere il tratto di mare a bordo di una barca, magari una motonave, una di quelle che durante la bella stagione portano i turisti in escursione. Seguendo la linea del costruito che senza soluzione di continuità dalla Romagna arriva alle Marche si ha la sensazione che tutto sia uguale, l’occhio man mano si impigrisce e non nota immediatamente quelle forme che ad intervalli interrompono la linea. Una volta completamente percepite la visione è impressionante, nonostante gli anni Settanta abbiano disseminato la costa di un numero infinito di alberghi, gli edifici delle colonie diventano nettamente distinguibili sia per le dimensioni sia per le forme ma anche per il fatto che una gran parte di essi ha una zona di rispetto attorno, un’area scampata all’edilizia tipica della “riminizzazione”. Se fino agli anni Venti le uniche costruzioni a mare erano i rari villini, col fascismo la spiaggia viene colonizzata e diventa paesaggio culturale. Dal mare le colonie rivelano immediatamente la loro doppia natura, la prima quella “solitaria” di manufatti architettonici; la seconda quella “dell’insieme”, intese come parte del paesaggio a mare da cui sono definite e che ancora contribuiscono a definire.
Ex Colonia Marina XXVIII Ottobre per i figli dei postelegrafonici, Pesaro.
In Romagna si trovano alcuni degli edifici più significativi, sia in stile eclettico-storicistico, che novecentista ma non mancano anche esempi delle avanguardie architettoniche razionaliste. Le Navi (1934) di Cattolica rappresentano l’episodio forse più significativo per i legami con le avanguardie funzionaliste e futuriste, un chiaro richiamo ai concetti di modernità tanto cari al regime. Con le colonie si materializza la visione architettonica razionalista italiana che nella scelta delle forme e anche dei materiali sostiene e amplifica la funzione dell’edificio. Numerosi sono i riferimenti all’architettura classicista che consente di celebrare pienamente la monumentalità di queste opere, soprattutto tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, così come i riferimenti eclettici non del tutto sopiti affiorano ancora nelle partiture delle facciate, degli androni e delle scale.
Gli edifici sono enormi, i loro ampi ambienti hanno due funzioni: la prima è quella dell’accoglienza di un gran numero di bambini; la seconda ha a che fare con l’ambito della comunicazione, il messaggio da veicolare è quello della grandezza e della potenza del regime, si tratta di veri e propri strumenti semantici capaci di narrare attraverso la forma e la disposizione degli spazi, la propaganda di regime.
I piccoli che le frequentano sono i destinatari di quel messaggio che essi stessi contribuiscono a rafforzare. Per tutta la durata del loro soggiorno che di solito è di un mese, sperimentano spazi e forme inconsuete e del tutto diverse da quelle a loro familiari, in questo modo si crea fin da subito un’interruzione con ciò che fino a quel momento conoscevano, si tratta d’imparare un nuovo linguaggio che prima di essere “parlato” comunica attraverso le forme degli spazi. Il bambino si trova di fronte ad una lievitazione dimensionale che da una parte lo spaventa e dall’altra lo accoglie amorevolmente, una sorta di enorme ventre materno in cui lo smarrimento dovuto all’amplificazione dei rumori e alla consapevolezza di trovarsi in qualcosa di sconosciuto viene trasformato attraverso la ritualità e la disciplina in qualcosa di familiare e affidabile. Quel ventre accogliente è quello della “madre patria” a cui quei bambini vengono affidati, o meglio, da cui vengono adottati.
Sezione oggetti ritrovati della mostra “Colonie Marine. Ipotesi per la conoscenza e la tutela del patrimonio storico del moderno.”,
a cura di Massimo Bottini
Le fasi della giornata sono scandite dall’alternarsi delle attività e ognuna di esse è svolta in un ambiente specifico, la sequenza delle attività segue quella degli spazi, tutto è rigidamente e militarmente programmato. In una colonia non ci si può muovere liberamente, non si sceglie dove andare. La preghiera a cui ci si dedica prima della colazione si fa in cappella, per raggiungerla partendo dalle camerate si percorre un corridoio, una volta lasciata la cappella si percorrerà un altro corridoio fino alla sala refettorio. Muoversi nello spazio di una colonia equivale ad ascoltare una narrazione, i bambini apprendono percorrendo i diversi ambienti.
Immaginiamo la grande scala in mezzo all’ immenso salone che sale avvinghiandosi dal piano terra al primo piano, dal luogo delle attività del giorno a quello della notte con le camerate, le pareti sono altissime e le altrettanto alte vetrate inquadrano l’esterno. Mentre i bambini salgono ruotano lo sguardo seguendo le curve della scala, percepiscono la maestosità dello spazio, la luce, ne sono sopraffatti; la salita è anche suono, il rumore dei passi che scalano quella altezza rimbomba e compone una marcia. Quel suono è forte a tratti assordante, spaventoso ma anche familiare e si somma alla maestosità dell’ambiente, la amplifica e viceversa. Tutto, ogni singolo particolare, ogni singola parte di questi edifici appartiene ad un intero ben definito e progettato fin da principio che non è comprensibile considerandolo solo somma delle singole parti.
Il rapporto di amplificazione, di dilatazione degli spazi non è limitato solo a quelli interni, ma anche a quelli esterni. Le colonie sorgono in aree “al limite di”, intrattengono un legame speciale con il contesto ambientale. Lo spazio interno dell’edificio marino non può essere colto se svincolato da quello dell’area esterna con la spiaggia di dune e la linea del mare. Il loro rapporto con l’ambiente rappresenta pertanto un’altra novità, edifici enormi adagiati su un terreno fino a quel momento completamente vuoto, un mutamento del paesaggio costiero importante. Per di più colonie significa anche strade ferrate, si arriva in colonia in treno, occorrono binari, stazioni, insomma infrastrutture viarie. Ai due ambiti interno ed esterno si aggiunge quello che si definisce della compenetrazione in cui il muro è, da un lato, limite interno ma allo tempo stesso limite esterno di un’altra forma, così la rotondità e la verticalità di alcune torri centrali sono definizione interna di certe inclinazioni di scale ma anche punto di contatto con la forma morbida delle dune.
Ex Colonia XXVIII Ottobre, per i figli degli Italiani all'estero, Cattolica (RN), progetto Busiri-Vici (1934).
Le colonie che colonizzano l’arenile inaugurano un uso nuovo di quello spazio, sono il punto di partenza del turismo balneare di massa. Usando una metafora si potrebbe dire che si sono comportate come piante pioniere. Attorno ad esse è spuntata ed è cresciuta forte e vigorosa la pianta della città turistica lineare.
E oggi?
Oggi sono perlopiù giganti in abbandono, quando non vengono sventrati e a volte snaturati per ospitare scuole o alberghi o appartamenti. Un patrimonio culturale inestimabile che attende ancora di essere letto, raccontato e compreso nel suo complesso.
La loro vita urbanistica si potrebbe riassumere in tre fasi: la prima, quella della costruzione e dell’uso in base alla funzione originaria; la seconda, quella dell’abbandono, della damnatio memoriae, dello svuotamento di significato; la terza, quella dell’attesa in cui per anni non sono state più nulla. Durante ognuna di queste fasi le colonie sono rimaste parte integrante del paesaggio, della memoria comunitaria ed elemento fondante della mappa mentale della comunità locale.
Oggi siamo di fronte ad una fase nuova e ancora tutta da definire.
Le colonie marine rappresentano una “genia architettonica” con un DNA condiviso per cui ripensarle, riqualificarle significa partire da una visione d’insieme. Occorre considerarle come un organismo vivo in cui una parte interagisce con ogni altra, di più, in cui ogni parte ha senso solo nell’interazione e nello scambio con le altre, è da questa interazione che potrà nascere e crescere la loro rinnovata vocazione. Questa “materia vivente” andrà sicuramente calata nel contesto sociale ed urbanistico in cui si trova aprendo un canale di comunicazione e di scambio con esso.
Ciò che più sbalordisce non è solo la loro infinita bellezza architettonica-funzionale, ma la capacità di sopravvivenza, in origine sono state piante pioniere poi, con il fenomeno urbanistico alberghiero, si sono trasformate in pianta ospite. Il futuro è ancora tutto da traguardare, potrebbero ancora una volta svolgere una funzione pionieristica, quella verso una nuova concezione urbanistica sociale oltre che di un rinnovato paesaggio percepito.
Colonia ENEL, Riccione (RN), progetto Giancarlo de Carlo (1963).
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