10 agosto
Le colonie estive
di Claudia Cerioli
di Claudia Cerioli
Estate, mare, montagna.
Quanti di noi da piccoli sono stati almeno una volta in colonia?
Tra giochi, didattica, svago e disciplina non ci saremo di certo posti la questione delle origini delle colonie.
Durante il terzo Memo Festival, tenutosi a Monfalcone tra il 22 e il 26 giugno si è parlato molto di questi luoghi, in particolare durante la conferenza Le grandi aziende italiane ed il welfare aziendale per le famiglie dei dipendenti, alla quale hanno preso parte Claudia Cerioli, responsabile Archivi storici e servizi bibliotecari di Fondazione Ansaldo, Davide Maffei, segretario Associazione Edoardo Gellner Architetto; Massimo Bottini, consigliere nazionale AIPAI e Danilo Craveia, direttore Archivio Gruppo Ermenegildo Zegna.
I loro interventi sono diventati #storiedaraccontare che ci accompagneranno lungo l’estate, immergendoci in ricordi e proiettandoci nel futuro per immaginare un riutilizzo di questi luoghi, nella maggior parte dei casi abbandonati.
Claudia Cerioli oggi ci introduce al welfare aziendale e nel cuore delle colonie estive.
Siac, Colonie estive,'50-'60
Le colonie estive nascono come una forma di welfare aziendale, ossia l’insieme dei benefit forniti dalle imprese ai propri dipendenti allo scopo di migliorarne non solo la vita lavorativa, ma anche quella privata.
È difficile parlare di welfare nell’Italia postunitaria poiché la maggior parte delle industrie aveva sede nel nord del paese, mentre nel centro sud l’economia era basata più su attività commerciali e agricole, pertanto la situazione risulta tutt’altro che uniforme. Con lo sviluppo delle grandi imprese e il conseguente e progressivo indurimento della vita di fabbrica gli imprenditori si trovarono presto a fronteggiare accesi conflitti con i lavoratori e, spinti dalla volontà di attrarre e accaparrarsi sempre più mano d’opera, cominciarono a prestare maggior attenzione ai loro dipendenti, ma solo in funzione della produttività.
Gli imprenditori pertanto cominciarono ad agire in modo indipendente dalle scelte legislative dello Stato. Laddove con una concezione “paternalistica” l’imprenditore era pronto a reprimere, servendosi di aspre punizioni, condotte non conformi a drastici regolamenti aziendali, andava a compensare adoperandosi per dare sempre più rilievo ai bisogni primari dei suoi lavoratori. L’obiettivo era creare un ecosistema sociale di uomini, ancor prima che operai, nel quale potessero vivere con le rispettive famiglie in vere e proprie comunità. Questo agire voleva non solo aumentare la produzione, ma anche a tenere lo Stato il più fuori possibile dalle vicende aziendali, il quale, deciso a mantenere rapporti amichevoli con i grandi industriali del tempo, spina dorsale dell’economia nazionale, decise di regolamentare solo i casi più estremi.
Grazie a Olivetti, e a personaggi del suo calibro, nella prima metà del Novecento si raggiunse una situazione più stabile, efficace e migliore, soprattutto per i lavoratori. Ancor più rilevante fu il fatto che per la prima volta venne riconosciuto in capo all’imprenditore un ruolo sociale di fondamentale importanza. Infatti maggiore era l’attenzione e la cura che questi riponevano nei lavoratori, maggiore era il loro livello di benessere sia in fabbrica che nelle comunità e contestualmente maggiori erano i vantaggi sociali che ne derivavano. Storicamente, infatti, le fabbriche e le comunità, che in quegli anni sorgevano attorno ad esse, avevano un’influenza enorme rispetto al contesto sociale del tempo, avviando le coscienze lungo il cammino della responsabilità sociale d’impresa.
La documentazione conservata in Fondazione Ansaldo è strettamente legata al mondo dell’impresa e dell’industria, pertanto è abbastanza normale che esempi di welfare aziendale siano praticamente rintracciabili ovunque. Quelli più significativi provengono dagli archivi Ansaldo e Ilva Italsider e riguardano principalmente le attività dei rispettivi dopolavori che spaziavano dal cinema al teatro, dai concorsi letterari a borse di studio, da gare sportive a gite sociali, da vendita a prezzi di favore di alcuni beni e servizi alla possibilità per i dipendenti di mandare i propri figli in villeggiatura presso le colonie aziendali.
Colonia Italsider di Montechiario, 1962
Le colonie hanno origine nella prima metà dell’Ottocento ed erano istituti di cura dove venivano mandati bambini poveri e malati per periodi brevi o a tempo indeterminato, difatti erano definite elioterapiche. Erano istituti di cura improntati su un basso livello di profilassi, in quanto attive esclusivamente nel periodo estivo e, di conseguenza, non potevano esercitare un effetto curativo utile e durevole, anche se i beneficiari erano bambini e bambine che nelle loro case non avrebbero mai trovato i mezzi necessari per un miglioramento fisico “in un clima sano improntato sull’esposizione del corpo al sole”, sfruttando al massimo le ore di luce di una giornata per agevolare la loro spensieratezza, i giochi liberi, gli esercizi ginnici, il canto corale, le passeggiate e le conversazioni improntate su tematiche politico-fasciste.
In seguito il regime fascista fece proprio il sistema delle colonie estive, gestendole attraverso diversi enti quali l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’Opera Nazionale Balilla e i Fasci Femminili. Le colonie fasciste, che potevano accogliere i propri ospiti in maniera permanente, temporanea o diurna, avevano un triplice scopo: essere albergo, clinica e scuola nello stesso momento. “Albergo”, perché al loro interno i piccoli coloni potevano alloggiare in ottime strutture e mangiare pietanze che a casa non potevano permettersi; “clinica” in quanto i bambini venivano seguiti dalle “signorine vigilatrici” e dai medici per la cura delle malattie; “scuola” poiché nelle strutture veniva inculcata la propaganda, l’educazione patriottica, il rispetto e l’obbedienza alle gerarchie.
I committenti erano organi di governo, svariate istituzioni del regime e numerose aziende (Ilva, Montecatini, Fiat, Edison, Pirelli, Agip, Dalmine…). Numerosi industriali italiani infatti videro già all’epoca nelle colonie il mezzo attraverso cui rafforzare il senso di appartenenza all’azienda e formare una nuova manodopera sana ed efficiente.
Colonia Ansaldo Montemaggio 1966
La colonia di Rovegno, tipico esempio di architettura razionalista, è una ex colonia estiva situata a 950 m di altitudine nel comune di Rovegno, in alta val Trebbia, nella città metropolitana di Genova.
È stata progettata dall'ingegnere Camillo Nardi Greco (1887-1968) e realizzata tra il 1933 e il 1934. Allo stesso progettista si devono anche le analoghe strutture costruite, sempre negli anni trenta del Novecento, a Savignone (Renesso e Monte Maggio) e Chiavari (Colonia Fara). I lavori iniziarono il 1º marzo del 1934 e terminarono in soli cinque mesi. L'inaugurazione avvenne il 29 luglio 1934. Fino al settembre del 1942 la struttura svolse regolarmente la sua funzione di colonia estiva.
Interamente realizzato in cemento armato ed in aderenza ai canoni stilistici del razionalismo, l'edificio ha un volume di 30.000 m3 e copre un'area di 1800 m², ha una pianta articolata secondo uno schema a C e si sviluppa su due piani oltre al piano terra e il seminterrato. Nel 1939 la struttura fu anche ampliata con la realizzazione di un grande chalet a ovest adibito a infermeria, che portò la capienza complessiva dagli originari 450 a 500 posti letto.
Il corpo centrale è costituito da un parallelepipedo allungato, che ospita un imponente ingresso e uno scalone, dal quale si accede ai piani superiori e alle camerate. Due volumi più corti sono posti lateralmente al corpo centrale, uno dei quali ha un ingresso coperto da una tettoia. Il corpo di levante, destinato ad area ricreativa, ospitava al suo interno un cinema, una palestra e una piccola cappella. Il corpo di ponente il refettorio sormontato da una torretta con orologio. In origine era dotata di piscina, un campo da calcio con pista podistica e un campo da pallacanestro. Al piano terra si trovavano un grande salone per la ricreazione, la palestra, la cappella, l'ambulatorio medico e gli uffici, nel seminterrato erano i locali di servizio (cucine, lavanderia e le stanze per il personale di servizio).
Colonia di Rovegno in una cartolina postale, senza data ma anni 40
Gran parte dei giovani che arrivavano qui per il turno di villeggiatura provenivano dal centro storico di Genova, luogo notoriamente angusto e all'epoca fortemente inquinato a causa della industrializzazione del porto. La prevenzione dalla tubercolosi tramite cure eliotropiche e attività fisica erano il fulcro del soggiorno. La permanenza era totalmente gratuita compreso il viaggio e le attrezzature sportive. Le permanenze estive terminarono alla fine dell’estate del 1942. Da ottobre di quell’anno la colonia fu impiegata come struttura di sfollamento per i ragazzi di Genova e vi si tennero addirittura le lezioni per alcune classi delle scuole. Le stesse camerate svolgevano la funzione di aule.
Nella primavera del 1944 le forze partigiane, attive dall'autunno del 1943 sui monti dell'entroterra genovese, avviarono un'offensiva che spinse i nazifascisti a spostarsi verso la costa abbandonando le valli interne e nel mese di luglio la val Trebbia, da Bobbio a Torriglia, divenne una zona libera partigiana. La colonia fu utilizzata dai partigiani come sede del comando della "Sesta Zona Liguria" e come infermeria. Per la sua capienza venne anche adibita dagli stessi a prigione per militari tedeschi e appartenenti alle forze armate della Repubblica Sociale Italiana o alle milizie paramilitari (Brigate nere) che le affiancavano. Alla fine di agosto i nazifascisti attuarono una massiccia azione di rastrellamento che a novembre portò alla riconquista della valle, respingendo i partigiani sui monti. Nel pieno dell'offensiva dei tedeschi e dei militari della R.S.I. le forze partigiane ottennero tuttavia un importante risultato, con il passaggio di un intero battaglione della divisione alpina "Monte Rosa" tra le fila dei resistenti. I rastrellamenti proseguirono per tutto il mese di gennaio del 1945 finché la controffensiva delle formazioni partigiane portò a rioccupare definitivamente la valle, e la colonia, nel febbraio del 1945.
Tra marzo ed aprile del 1945 parte dei prigionieri rinchiusi nella colonia, soprattutto militari della RSI e membri delle Brigate nere, furono giustiziati e sepolti in fosse comuni nei boschi limitrofi. Le cifre oscillano molto, circa 150 salme furono effettivamente ritrovate ma alcuni documenti della prefettura ipotizzano che il numero dei detenuti giustiziasse ammontasse a circa 600.
Appena finita la guerra la colonia venne data in affitto all'opera di Don Orione, che ne fece un luogo di vacanza per i ragazzi dell'istituto, ma dalla fine degli anni sessanta fu abbandonata e colpita da svariati atti vandalici che la resero inabitabile. Oggi l'edificio, in completo abbandono, è inutilizzato e pericolante, sebbene abbia mantenuto inalterate nel tempo le sue caratteristiche architettoniche. Diverse ipotesi sono state avanzate nel corso degli anni per il recupero della struttura; nei primi anni duemila il comune di Rovegno la cedette a una società di Milano, che intendeva utilizzarla per ospitarvi anziani e disabili, ma nessuna iniziativa trovò mai concreta realizzazione, ed anzi i locali furono più volte teatro di rave party clandestini. La colonia è tornata oggi a far parte dei beni gestiti dal comune di Rovegno e dal 1999 è soggetta a vincolo architettonico e ambientale.
La colonia di Rovegno oggi
Fondazione Ansaldo
Villa Cattaneo dell’Olmo, Corso F.M. Perrone 118, 16152, Genova, Italia
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