Umanesimo industriale

  • Omaggio a Dino Buzzati

    Cinquant’anni fa ci lasciava Dino Buzzati, bellunese ma milanese di adozione.

    Un grande umanista poliedrico, capace di esprimere le intuizioni dei propri sentimenti in racconti di cui si ha bisogno di leggere e rileggere. Come non ricordare infatti “Il deserto dei Tartari” …… ma Buzzati era anche un artista, amava la pittura “… dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie …”.

    Ecco, noi oggi desideriamo rendere omaggio a uno dei più affascinati e originali interpreti del nostro tempo, con un breve testo e con il rimando alle sue parole narrate da un grande attore, Arnoldo Foà, nel documentario Pianeta Acciaio, materia fondamentale, da sempre controversa, con la quale il nostro Paese ha però costruito tanto del suo sviluppo economico e benessere e della quale conserviamo nei nostri archivi molta della memoria industriale.  

    omaggio a dino buzzati

    Quell’interpretazione dell’uomo contemporaneo, così vera, così dura.

    In tempi di Covid sappiamo perfettamente cosa possa significare il senso di paura, di angoscia, di solitudine. Il lockdown ha influito pesantemente sulla nostra psiche. Quanti casi di alienazione, di depressione, di disorientamento, soprattutto nei giovani. Quel senso di ansia, di attesa, quella fuga dallo spazio-tempo ci ricorda il Giovanni Drogo del Deserto dei Tartari. Dino Buzzati era un genio, pendente tra la poesia e la pittura aveva già interpretato gli umori, i sentimenti dell’uomo postatomico. Calato nella modernità, non guardava al passato, viveva il presente e con occhi disincantati prediceva il futuro.

    L’industria lo affascinava, l’acciaio lo meravigliava, con le sue implicazioni sociali, con le sue applicazioni in campo tecnologico. Interprete di quell’umanesimo scientifico propugnato da Leonardo Sinisgalli, direttore della rivista “Civiltà delle Macchine”, l’eclettico Buzzati credeva in un sapere universale, trasmettendo i suoi pensieri, le proprie emozioni con la grazia della penna e con la leggiadria del pennello.

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    Si spiegano così i suoi molteplici interessi in campo industriale, sfociati nella sua partecipazione al filmato “Pianeta Acciaio”, conservato nella nostra fototeca, dove l’acciaio diventa il protagonista dell’evoluzione tecnologica dell’uomo contemporaneo, l’emblema, l’incarnazione del progresso, da cui l’homo faber, l’uomo-demiurgo, plasma e modella il mondo. Un mondo tuttavia sempre più frenetico, che accanto al benessere, associa quell’inquietudine, quel “male di vivere” con cui dobbiamo convivere, che ci ricorda come l’uomo postatomico ha raggiunto il culmine della sua potenza, ma anche della sua fragilità.

    Intellettuale, uomo colto, ma anche uomo del popolo, dentro il popolo. Fautore di una divulgazione aperta, inclusiva, non elitaria. Lo ricordiamo con un suo commento alla rivista Civiltà delle Macchine, conservata presso la Fondazione Ansaldo: “La regola normale della divulgazione è che lo scienziato scenda. Qua è il lettore che si innalza. L’ambiente, comunque, è fatto per incoraggiarlo…” e con il link alla breve clip tratta dal documentario “Pianeta Acciaio” all’interno del quale Arnoldo Foà legge le parole scritte da Buzzati.

     

     

  • Smart Working – Lavoro Agile

    Fondazione Ansaldo – fabbrica della memoria – prova a scrutare il futuro dell’Umanesimo Industriale. Lo fa dialogando con il fondatore e presidente onorario di SDSC, Società di Scienze Comportamentali, studioso di problematiche che afferiscono alla organizzazione e gestione delle risorse umane, sul tema dello “smart working”.

    La pandemia ha infatti avviato una trasformazione importante del lavoro, dei luoghi di lavoro e della socialità sul lavoro: la cosiddetta fabbrica di una volta ha perso quella centralità nello sviluppo socio-antropologico e relazionale, anche urbanistico, sostituita dalla città che ha invece assunto un ruolo di centro gravitazionale a 360°.

    Il “lavoro agile” sta diventando “la nuova normalità”, consuetudine. È un cambiamento di grande rilevanza e, come sempre accade, ogni cambiamento determina impatti. Quanto questi impatti avranno riflesso nel contesto di riscoperta di quell’Umanesimo Industriale che Fondazione Ansaldo intende indagare? Perderemo quei confini e riferimenti che posizionano al centro impresa e lavoratore con le rispettive peculiarità, conoscenze, origini e storie?

    Globalizzazione e tecnologie informatico-digitali stanno quindi imprimendo un continuo cambiamento all’interno del quale nascono certamente nuove opportunità, si aprono nuovi orizzonti e prendono forma nuovi modelli di socialità: le cosiddette comunità integrano - se non addirittura sostituiscono - la presenza fisica sempre più con quella in rete, diventando sempre più “liquide”.

    Al lettore trarre le riflessioni che riterrà più opportune.

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    D. Si parla di educare al lavoro per obiettivi e non per task.Lei non pensa però che l’obiettivo a lungo termine possa essere un’arma a doppio taglio? I task finalizzati all’obiettivo, con date precise e compiti specifici da svolgersi nel breve periodo possono garantire una maggiore efficacia rispetto a una libertà che non sempre garantisce la realizzazione degli obiettivi. Porre un obiettivo a lungo termine, responsabilizzando i dipendenti sui risultati, può rilevarsi paradossalmente una perdita di “produttività” e di efficienza?

    R. Le preoccupazioni possono nascere dall’idea di cultura aziendale che è insita dentro di noi. Bisogna effettuare un passaggio culturale e strategico. Educare per obiettivi significa far leva sulla responsabilità individuale, attraverso un modello di leadershipche supera gli aspetti desueti del comando e del controllo. Il managementdi oggi deve basarsi sulla fiducia e sull’empowerment, aprendosi a una nuova modalità di pensiero dove il valore della qualità e la responsabilità degli obiettivi assegnati saranno elementi fondamentali espressi attraverso comportamenti ben identificabili.

    D. Smart workinge utilizzo degli analytics.Si parla di maggiore attitudine al lavoro da remoto o da ufficio. Ma porre su campi differenti questi due aspetti, con l’utilizzo degli analytics,non comporterebbe anche una disparità nei rapporti con il personale?  Non bisognerebbe tendere sempre e comunque al lavoro d’ufficio, anche in un’ottica di creazione dell’empatia tra dirigente e lavoratore, che il remoto non riesce a stabilire?

    R. Non comporterebbe disparità in quanto elemento di valutazione positivo, che non intende pregiudicare i rapporti con il personale, ma rafforzarli a livello empatico. Il manager è capace di adottare iniziative che vengano incontro alle peculiarità del lavoratore, definendo la miglior soluzione tra il lavoro in ufficio o l’home working. Creare un’empatia è generare un ambiente stimolante e comprensivo, dove le aspirazioni aziendali e il benessere del dipendente non sono agli antipodi ma concorrono entrambi per il successo.

    D. Creare un network di teams.Fa molto americano, ma all’Italia converrebbe generare un network di teams con la mentalità che possiede? Operare esternamente alla gerarchia e alla struttura burocratica dell’organizzazione dovrebbe garantire libertà individuale e collettiva, ma non potrebbe creare fraintendimenti, dispersione? Bisognerebbe valutare da caso a caso, da azienda ad azienda, ma il rischio non è una frammentazione delle competenze, con un indebolimento del management e delle direttive che può dare, con conseguente mancato raggiungimento degli obiettivi?

    R. Un networkè pima di tutto luogo di condivisione. Come può esserci fraintendimento o dispersione dove le capacità del singolo vengono messe a disposizione di un bene comune? Bisogna pensare in termini kantiani, la concezione di organismo come “tutto” formato da “parti” che cooperano tra loro in armonia è superiore a una singola parte che opera in autonomia. Può essere una parte perfettamente funzionante, ma se opera senza collegamenti/condivisione è destinata a ottenere minor risultato rispetto a un organismo (team) che concorre a un obiettivo comune. Ecco perché sono importanti le reti, la dispersione avviene se il “genio” delle parti è fine a se stesso ed è compito del managementindirizzare quel genio a un fine superiore. 

    D. L’azienda deve avere legalmente responsabilità sociale? La povertà della vita di relazione non è un problema individuale che va oltre l’orario lavorativo? L’azienda sicuramente deve anche interrogarsi sulla salute emotiva dei dipendenti ma perché allora vincolarsi a uno smart workingche, a seconda dei casi garantisce un maggior-minor incremento della produttività, e dover pure porsi il quesito della responsabilità sociale? Il senso di appartenenza non si crea con il rapporto vis-a-vis, piuttosto che con iniziative social, che rimandano ancora a un utilizzo impersonale delle relazioni?

    R. Lo smart workingnon deve diventare un feticcio che si impone sulla gestione della vita lavorativa. È uno strumento che non si può ignorare, nell’era post-pandemia, ma che può anche aver delle ripercussioni negative proprio per la povertà della vita di relazione. Le aziende devono riuscire a padroneggiare questo strumento, che non è il fine ma il mezzo per rispondere alle esigenze contingenti. Il manager riuscirà, a seconda delle situazioni, interagendo con il lavoratore, senza affidarsi esclusivamente al virtuale, a trovare la soluzione migliore per dipendente e azienda. Ogni sistema è utile per relazionarsi, a partire dai social, senza dimenticare però che il rapporto diretto è preferenziale e non verrebbe comunque ignorato a prescindere dallo smart working.Questo rimane uno strumento, non un luogo di isolamento che aliena il lavoratore.

    D. L’home working è un qualcosa che il lavoro di oggi non può trascurare. Immaginiamo quanto potrà aiutare famiglie con figli, persone con problemi di salute, e così via. Tuttavia ripensare l’intera esperienza del lavoratore è corretto? Non si potrebbe semplicemente far correre il lavoro da ufficio e il lavoro da casa su binari paralleli, che però non vengano a sovrapporsi? Bisognerebbe chiedersi quali sono le situazioni contingenti che possono spingere alla scelta dell’home workingsenza che ciò possa radicalmente ripensare la politica lavorativa attuale, attuando così un percorso graduale, di convenienza da caso a caso.

    R. Infatti è necessario ripensare l’esperienza dei dipendenti, nel senso che le nuove forme di attività lavorative non potranno essere accantonate. Non si parla quindi di rivoluzionare le attuali politiche del lavoro ma integrarle, fonderle con i nuovi sistemi e valutare a seconda delle situazioni. Bisogna riconoscere che il COVID-19 ha accelerato l’avvento di nuove forme di lavoro che non potranno più essere ancorate a molti dei comportamenti del passato. Oggi è necessario valutare e innovare l’esperienza dei dipendenti anche alla luce di una società che sta cambiando in fretta e che ha esigenze profondamente diverse rispetto a 30 anni fa.

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