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Civiltà delle Macchine
«Civiltà delle Macchine» era una rivista bimestrale pubblicata dal 1953 al 1979 grazie al sostegno di Finmeccanica e fondata da Leonardo Sinisgalli e da lui diretta fino al 1957.
Le pagine di «Civiltà delle Macchine», in parte disponibili su Archimondi, sono il frutto dell’ecclettismo di Sinisgalli, lui stesso interprete vivente dell’armonico connubio tra cultura umanistica e scienza.
Sinisgalli sulle pagine della sua rivista interroga i più importanti intellettuali del suo tempo e li invita ed esporre le loro considerazioni, riflessioni, ma anche paure ad angosce, sulle macchine e sul loro ruolo nella civiltà moderna. Problemi, discussioni, quesiti anche cruciali mai così centrali e attuali come oggi, in un’epoca in cui si costruiscono macchine che servono a delle macchine per produrre altre macchine.
La rivista è ritornata nel 2019 su iniziativa della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine.
CdM-copertina-Una sagoma di acciaio nei Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Trieste-novembre 1954-anno II, n.6
Nell’idea del suo ideatore, «Civiltà delle Macchine» doveva essere un “ponte” per mettere a contatto alcuni tra i massimi scrittori, artisti e poeti con la realtà della scienza, dell'industria, della tecnologia; un laboratorio in grado di verificare l’utilità, e per certi versi l’insostituibilità, dell’approccio creativo dell’arte e della letteratura come strumento di conoscenza per fenomeni che di letterario non hanno nulla.
La rivista nasce in un periodo storico particolare: da un lato gli orrori della guerra, nel 1953 ancora così vicini nella memoria da non poter neppure essere definiti ricordi, e quell’inquietudine di fondo che si portano dietro, generata dall’aver compreso in tutta la sua drammaticità la fragilità della vita umana, e dall’altro la voglia di rinascita e di ricostruzione, l’idea di un progresso potenzialmente senza limiti e la volontà di mettere quelle stesse macchine e tecnologie, portatrici di morte e distruzione durante la guerra, al servizio della collettività.
Sinisgalli interroga quindi i più importanti intellettuali del suo tempo e li invita ed esporre le loro considerazioni, riflessioni, ma anche paure ad angosce, sulle macchine e sul loro ruolo nella civiltà moderna. Le risposte oscillano tra l'utopia espressa da Moravia (“il dominio sulla macchina senza inconvenienti e senza pericoli”), l'ottimismo di Gadda (“La parola progresso, che altrove è mito e bugia, non è mito e neppure bugia, nel vasto cantiere della verità meccanica dove sono ad opera le macchine”), il pragmatismo di Tofanelli (“Dalla bicicletta a motore all’aereo supersonico, alle macchine a propulsione atomica, la sostanza non cambia. Nella lotta contro la miseria e per l’accorciamento delle distanze, la macchina ha un compito decisivo, ed è dalla parte di chi lavora”), i dubbi espressi dal pur entusiasta Ungaretti sulla possibile disumanizzazione prodotta dalla società tecnologica e sulla necessità di dominare la macchina, di “renderla moralmente arma di progresso”.
Problemi, discussioni, quesiti anche cruciali mai così centrali e attuali come oggi, in un’epoca in cui si costruiscono macchine che servono a delle macchine per produrre altre macchine.
Copertina - Volo di uccelli di Leonardo da Vinci - gennaio 1953, anno I, n. 1
Proprio per questo nel 2019, dopo un silenzio durato quarant'anni, Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine ha deciso di rieditare la rivista, rinnovandone il progetto editoriale e proponendola con periodicità trimestrale per “…inoltrarsi nei terreni difficili della ricerca e del dialogo interculturale, avendo alle spalle non un mecenate ma una impresa radicata in questo Paese…”. Il primo numero della nuova rivista è stato presentato il 5 giugno 2019 al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano.
Primo numero Civiltà delle Macchine giugno 2019
Flavia Steno: la prima giornalista del Secolo XIX
Le donne sono presenti, in misura diversa, in quasi tutti gli archivi conservati da Fondazione. Talvolta lo sono in forma collettiva, corale; talaltra è invece possibile delineare alcune individualità forti, dominanti, capaci di imporsi nella società dell’epoca. “In un prossimo avvenire la donna non si contenterà più di essere una macchina per far figliuoli o una bambola da salotto; ma mostrerà che nella lotta libera delle forze individuali ha anche essa il diritto di combattere per la propria indipendenza”: così chiosava nel 1917 Luigi Ferrannini, professore della Regia Università di Napoli, nientemeno che dalle pagine della rivista «Le Industrie Italiane Illustrate», uno tra i più importanti periodici legati al mondo industriale e imprenditoriale dell’Italia preunitaria.
La prima forte personalità femminile che si incontra negli archivi della Fondazione Ansaldo è Flavia Steno, nomen de plume di Amelia Osta Cottini (Lugano 1877 - Genova 1946), tra le prime donne giornaliste de «Il Secolo XIX» e autrice di romanzi di appendice pubblicati dapprima a puntate e in seguito raccolti in volume dall’editore Treves, che ottennero grandissimo successo all'epoca.
Fondo Flavia Steno, ritratto di Flavia Steno, senza data
La raccolta che porta il nome di Flavia Steno è stata recuperata dagli eredi e dalla professoressa Martina Milan, docente di Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Genova, e ceduta a Fondazione Ansaldo nel 1999. La documentazione è costituita da 45 fascicoli (per un totale di 1518 documenti), ed è relativa soprattutto agli ultimi anni di attività professionale della giornalista. Dal novembre 2021 è consultabile su Archimondi, il risultato della prima fase del nuovo piano di digitalizzazione portato avanti da Fondazione Ansaldo.
Amelia Osta Cottini nacque da Adelaide Brughera, che apparteneva a una famiglia di industriali, proprietari di una cartiera, e da Giovanni Osta, dapprima dedito al commercio e in seguito impiegato alla Gio. Ansaldo Armstrong e C.
Studiò dagli 8 ai 14 anni presso il Collegio di montagna di Dumenza, tra Luino e Ponte Tresa, dove apprese perfettamente l’italiano, il francese ed il tedesco. In seguito Amelia proseguì gli studi a Milano, dove a soli 14 anni ottenne il diploma di maestra elementare alla scuola normale o magistrale femminile; fu poi a Zurigo e a Losanna, con il diploma di magistero superiore. È probabile che abbia frequentato l’università di Zurigo, probabilmente solo come uditrice, dato che non compare il suo nome nella lista delle iscritte. Fra il 1895 e il 1898 insegnò letteratura italiana e storia universale nella scuola femminile di Locarno. E sul tema dell’insegnamento scrisse due romanzi pubblicati dal 1898 al 1900, gli unici che portano il suo nome originale: Mignon Sartori e L’istitutrice del baronetto inglese. Sono i primi due romanzi di una lunga carriera: ne firmerà con altri nomi oltre una trentina.
Nel 1898 arrivò a Genova con il marito, Giovanni Cottini. Le carte purtroppo tacciono su quali furono i motivi del loro arrivo a Genova. Fatto sta che, già nello stesso 1898, Amelia varcò la soglia della redazione del «Secolo XIX» dove conobbe Luigi Arnaldo Vassallo, in arte Gandolin, giornalista di chiara fama, già direttore del «Messaggero» di Roma e del giornale «Il Caffaro» di Genova, da poco direttore de «Il Secolo XIX». La sua prova d’ingresso fu un articolo sulla scultrice Jeanne Royannez, moglie del politico socialista Clovis Hughues, la quale aveva ucciso a colpi di pistola un giornalista che aveva diffamato il marito. L’esito positivo della prova determinò l’inizio della sua carriera giornalistica con lo pseudonimo di Flavia Steno, scelto da Gandolin.
L’incontro con Gandolin, dal quale nacque una sincera e duratura amicizia, è destinato a segnare profondamente i futuri sviluppi della carriera della Steno. Grazie a lui, la giornalista conosce Ferdinando Maria Perrone, proprietario de «Il Secolo XIX» e della Gio. Ansaldo & C., tra le più importanti industrie pesanti di tutto il territorio nazionale, e la sua famiglia, diventando amica anche della moglie, Cleonice Omati.
Flavia Steno ha sempre espresso posizioni moderate nei confronti del femminismo, ma negli anni che intercorrono tra il 1899 ed il 1901, pur essendo alle prime armi, si afferma proprio trattando questioni scottanti: per esempio la liceità dell’avvocatura femminile o la necessità di un impiego per le donne. Nel settembre 1900, in occasione dell’Esposizione di Parigi ebbe luogo il congresso internazionale femminile, indetto dal giornale «La Fronde» - periodico redatto da sole donne - e la Steno conquistò il diritto di cronaca. Pur essendo ammiratrice di donne come Emilia Mariani, ferma sostenitrice del voto femminile, la Steno non si espresse mai positivamente sulla questione, poiché considerava la donna italiana impreparata culturalmente.
Favorevole all’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, dal 1915 il suo interventismo si concretizzò nel ruolo di corrispondente di guerra e agente di propaganda senza soluzione di continuità. Su incarico di Mario Perrone – erede del padre Ferdinando Maria Perrone sia nella gestione de «Il Secolo XIX» sia dell’Ansaldo –, nel 1915 si recò a Berlino e iniziò ad inviare dispacci quotidiani con lo pseudonimo di Mario Valeri. Fu fra le poche donne a vedere e raccontare il conflitto dal fronte, infiammando una mobilitazione femminile patriottica che spinse la scrittrice e giornalista Paola Baronchelli Grosson a inserirla fra le 157 donne benemerite della città di Genova.
Nell’autunno 1915, Flavia Steno si recò a Palmanova per avere dal Comando Supremo l’autorizzazione a visitare le formazioni sanitarie del Fronte. Dalla serie di corrispondenze pubblicate da «Il Secolo XIX» - Nell’orbita della guerra - sull’organizzazione sanitaria militare, preceduta da un’inchiesta sui ricoveri genovesi, si enucleano i motivi del suo pensiero: l’esaltazione del soldato visto come “corpo da curare – anima della nazione”, il rilancio dell’estetica futuristica della guerra, il richiamo all’istinto di maternità.
Durante il biennio “rosso”, le sue posizioni di fondo si ritrovano nella rivista femminile «La Chiosa», da lei fondata il 20 novembre 1919. Nel 1922 partecipò al congresso liberale in rappresentanza delle donne. Come portavoce del partito liberale si schierò a favore dell’impresa di Fiume, dell’italianità, dell’intoccabilità dell’istituto familiare, sostenne una legge sulla ricerca della paternità, per debellare la piaga dell’abbandono dei bimbi, proclamò nuovamente la necessità del lavoro per le donne, assunte durante la prima guerra mondiale da molte industrie ausiliare, in primis l’Ansaldo, per sostituire gli uomini partiti per il fronte e immediatamente licenziate con il ritorno dei reduci. Si oppose agli scioperi e allo stesso tempo indisse delle campagne referendarie fittizie per dibattere sul divorzio.
Dal 1923 la sua rivista fu presa di mira, perché vi si deploravano i metodi della politica di Mussolini. Il 31 dicembre 1925 la Steno fu costretta a congedarsi dalle sue affezionate lettrici. Durante il ventennio fascista scrisse romanzi e apparve di rado pubblicamente. Espose le sue idee più intime rispondendo alla posta delle lettrici, essendo divenuta responsabile, dal 1930, della rubrica La posta di Mirandolina, sempre su «Il Secolo XIX».
In un articolo del 21 gennaio 1938 la Steno, in occasione di una conferenza volta a celebrare i suoi quarant’anni di giornalismo, si espresse con prudenza verso il fascismo e la missione del giornalista di regime. Scrisse così sui balilla genovesi, sui discorsi del duce, sul fascismo e la visione della donna, sul divieto del consumo di beni importati, e per ordine del governo, su Graziani in Tripolitania, e sui pionieri in Africa.
Nonostante l’iniziale prudenza, con il passare degli anni la sua posizione nei confronti del fascismo si radicalizzò, portando ad una netta rottura. Il 27 luglio 1944, in seguito alla pubblicazione di un suo giudizio sui libri di testo per bambini, apparso nel 1943 sul «Secolo XIX», in cui osteggiava il fascismo (“in blocco non è eccessivo giudicarli un obbrobrio”), venne condannata a quindici anni di reclusione. Lasciò Genova, si recò a Zerba, a Moncalvo, dove trovò ricovero in un cascinale, in cui dimoravano i partigiani. Grazie all’ottenimento di una carta d’identità falsa, sotto il falso nome di Rina Fantoni, attese la caduta del regime.
Stralci della sentenza di condanna di Flavia Steno a quindici anni di reclusione, 1944
Documenti falsi di Rita Fantoni
Finita la guerra tornò a scrivere per un anno al «Corriere» e poi al «Secolo XIX», fino al dicembre del 1946. Il 4 dicembre 1946 condannò in un articolo i massacri di civili, soprattutto di donne e bimbi nei campi di Esperia da parte delle truppe marocchine, paragonandoli agli orrori dei campi di sterminio nazisti e lanciando un appello alle donne parlamentari da lei elette, per rendere pubblico il misfatto. Morì poco dopo, la notte del 19 dicembre 1946. I colleghi e le colleghe, dopo la sua scomparsa, ne diedero notizia sui giornali genovesi. Marbett su «Il lavoro nuovo» scrisse: «come la Serao era imbevuta fino al midollo di questo agre e affascinante odor d’inchiostro tipografico…grandi figure l’una e l’altra, nella loro sostanziale modestia fortissime rivendicatrici, senza darsene l’aria, dei diritti dell’intelligenza femminile».
Prima pagina del dattiloscritto originale di “Cascina Gigliola. Romanzo Partigiano”, senza data ma 1944 - 1945
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