L’Italia e in particolar modo Genova, con i Cantieri Navali Ansaldo di Sestri Ponente, hanno una grandiosa storia navale alle spalle.

I metodi di costruzione e navigazione si sono evoluti nel tempo, ma mai così rapidamente come nell’Ottocento e nel Novecento. Le tante testimonianze presenti nei nostri Archivi ce lo raccontano, così come questo testo che oggi le accompagna.

Buona lettura e… buon viaggio!

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Durante l’Ottocento si verificano grandi cambiamenti nella storia della costruzione navale. Fino al secolo precedente, il Settecento, la tecnica costruttiva non era stata molto diversa da quella nata nel Medioevo in Europa occidentale. Si usava il legno, in genere quercia per lo scafo, pino o abete per gli alberi e per i pennoni; il tutto era tenuto insieme da chiodi e perni in ferro. Un accurato lavoro di “calafataggio”, fatto con pece e stoppa, assicurava la giusta impermeabilizzazione. Quando però la nave doveva navigare nei mari tropicali, lo scafo veniva rifasciato con fogli di rame, in modo da resistere meglio all’assalto delle teredini: molluschi divoratori di legno che, scavando intricate gallerie, provocavano gravissimi danni, talvolta irreparabili.

Con la rivoluzione industriale e l’adozione del ferro nella costruzione navale, la situazione incomincia a cambiare profondamente. Prima, quasi tutto il lavoro veniva svolto in cantiere, senza tanti disegni tecnici; ci si basava sull’esperienza e sul colpo d’occhio del maestro d’ascia. Con l’impiego del ferro, invece, occorrono disegni accurati di ogni singolo pezzo, che viene fornito dalle officine esterne e montato nel cantiere. Occorre adesso un’accurata organizzazione del lavoro e un preciso coordinamento delle varie fasi di progettazione e costruzione. E occorrono anche investimenti economici ben maggiori.

All’inizio il ferro è poco usato, perché si teme che in mare duri meno del legno, ma con lo sviluppo delle tecniche siderurgiche, si passa alla costruzione interamente in ferro e, infine, a quella in acciaio. E con l’acciaio aumentano notevolmente le dimensioni dei bastimenti, migliora anche la tenuta al mare e cresce la capacità di carico.

Nella costruzione in metallo, le varie parti vengono unite con dei grossi chiodi conficcati a caldo; per questo lavoro occorrono maestranze di grande perizia tecnica e manuale. Ma presto - grosso modo fra le due guerre mondiali - in luogo della chiodatura, prende piede la saldatura, una delle innovazioni più significative in questo campo. La novità viene accolta con cautela ma, ancora una volta, con il miglioramento delle tecniche e con la messa a punto di acciai particolari, la saldatura diventa di uso generale.

Ma non c’è solo lo scafo.

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Turbonave Michelangelo, Cantieri Navali Ansaldo di Sestri Ponente, 1962

Con la rivoluzione industriale viene rivoluzionata anche la propulsione delle navi. Per millenni, si sa, ci si era basati sulla forza del vento o, al limite, su quella dei remi, ma durante l’Ottocento si incomincia a usare il vapore.

Grazie agli studi e alle sperimentazioni di schiere di scienziati e dilettanti di tutti i paesi europei e, soprattutto, grazie a James Watt, la macchina a vapore viene sviluppata e resa economicamente sfruttabile; siamo in Gran Bretagna, allora la prima nazione industriale del mondo. Il vapore è prodotto dalle caldaie, via via sempre più perfezionate, alimentate dal carbon fossile come il Cardiff, di produzione gallese, il migliore. Il carbone è portato con ceste a forza di braccia sulle navi e lì i fuochisti - la black gang - lo buttano a palate nei forni delle caldaie.Il loro lavoro è altrettanto se non più duro di quello dei gabbieri al tempo dei velieri: accecati dal pulviscolo del carbone, passano ore e ore in ambienti malsani, illuminati da una luce fioca, resi incandescenti da temperature infernali e dotati di poche maniche a vento per il ricambio dell’aria.

Ma all’inizio del Novecento, grazie ancora una volta a un inglese, Charles Parsons, la macchina alternativa viene sostituita dalla turbina a vapore, che ha un migliore rendimento ed è più potente. La turbina a vapore, in un sol colpo, rende obsolete tutte le navi precedenti. E sempre in quegli anni si verifica il passaggio alla nafta, che elimina i tanti problemi posti dal carbone. E ancora, negli anni fra le due guerre mondiali, si ha un terzo cambiamento epocale: i motori diesel sostituiscono quelli a vapore, con un considerevole risparmio di carburante e di manodopera. Il trasporto per mare diventa così ancor meno costoso.

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Caldaia Marina, Stabilimento Meccanico di Sampierdarena, Gio. Ansaldo & Co., 1920

Alla fine di ogni costruzione, c’è il varo. Il momento più importante, affascinante ed emozionante nella vita del cantiere, quando lo scafo scivola in mare dallo scalo, fra l’ululato delle sirene, le grida della folla festante, l’acre odore del sevo surriscaldato, il rumore delle catene che fanno da freno.

Operazione tecnicamente complessa, piena di rischi.

Un rito quasi sacrale.

C’è il discorso dell’armatore, la benedizione del presule, le autorità, la madrina che taglia il nastro e la bottiglia di spumante che si frange sulla nave. Chissà quanti vari ci saranno stati negli innumerevoli cantieri navali della nostra penisola! Solo per restare in Liguria, non c’è paese o città, lungo le riviere, che non vanti uno o più cantieri. Tra questi, il Cantiere Navale di Genova Sestri Ponente è, in Italia, uno dei più antichi tra quelli ancora attivi. Le sue origini risalgono infatti ai primi dell’Ottocento, quando alcuni maestri d’ascia liguri, che avevano lavorato per conto della marina francese presso l’Arsenale di Tolone, tornano in patria con l’idea di avviare dei cantieri. Cantieri nei quali tener conto delle nuove cognizioni scientifiche e nei quali impiegare i nuovi metodi costruttivi appresi in giro per l’Europa.

Fu un successo. Un grandissimo successo.

Nel corso di quei decenni, migliaia di velieri di ogni genere e dimensioni scendono in mare dagli scali di Sestri. E in giro per il mondo il nome della cittadina diventa sinonimo di robustezza strutturale, capacità di carico e buone qualità marine. I costruttori più importanti sono senza dubbio i fratelli Cadenaccio, leader sul mercato italiano, che varano bastimenti leggendari come il Cosmos, il miglior clipper mai prodotto nel nostro paese.

Ma con la diffusione delle innovazioni tecnologiche proprie della rivoluzione industriale l’Ansaldo di Genova Sampierdarena, da subito “la più grande officina del Regno”, alla produzione di locomotive e di apparati motore affianca quella della costruzione di navi.

Nel 1876 vara la sua prima nave in ferro, il Regio Avviso ‘Staffetta’ di 1800 tonn. con 1700 cavalli di potenza, e decide, nel 1886, di trasferire le proprie costruzioni navali a Sestri, borgo ricco di maestranze e dotato di una spiaggia ampia e di giusta pendenza, acquistando il cantiere Cadenaccio.

Da quel momento e fino alla cessione di questo ramo d’azienda all’ Italcantieri di Trieste nel 1966, il nome Ansaldo è sinonimo di navi militari e mercantili dalle ottime prestazioni, con strumentazioni all’avanguardia e apparati motori di grande potenza e affidabilità.

Dagli scali di Sestri Ponente scendono in mare alcune delle più famose unità della marineria italiana, come gli incrociatori corazzati della classe “Garibaldi” di fine Ottocento o il mastodontico Rex del 1931, transatlantico da record celebrato da Federico Fellini nel film Amarcord.

Una storia importante, per alcuni quasi leggendaria che, per nostra fortuna, continua ancora oggi.

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Varo del transatlantico Roma, Cantieri Navali Ansaldo di Sestri Ponente, 1926

Di Guido Conforti,
Vicedirettore  Confindustria Genova

Guardando i recenti dati ISTAT relativi al numero di persone impiegate nel settore industriale si tende a pensare ad una perdita progressiva di occupati e dunque a un mutamento in negativo. Se però si considerano i cambiamenti nei processi produttivi, la globalizzazione dei mercati, il mutamento di domanda e offerta e la nuova articolazione delle catene internazionali lo scenario apparirà ben diverso. I processi manifatturieri sono ormai scomposti, anche in imprese autonome e solo alcune di queste figurano come industriali. È altrettanto distorsivo ritenere altra cosa rispetto alle catene del valore manifatturiere la consistenza delle imprese, figlie di un know-how radicato nei 150 anni di storia industriale della città, che svolgono attività di ricerca, innovazione tecnologica, ingegneria, management di processi, gestione dei dati. La sfida più importante che Genova e la Liguria devono però vincere è quella demografica; creare le condizioni affinché, oltre a rimanere, un numero sempre maggiore di persone decida di venire a vivere, studiare e lavorare in questo territorio così ricco di valori e di competenze, non sempre facile da apprezzare compiutamente. Si tratta anche in questo caso di una grande impresa, di cui è lecito augurarsi un grande successo.

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Un esercizio ricorrente nel parlare dell’industria genovese e ligure è quello di evidenziare (nel senso di stigmatizzare e lamentare) la perdita progressiva di occupati nell’industria come sintomo del declino economico, pertanto anche demografico, del territorio. I numeri offerti dalla statistica, almeno apparentemente, rappresentano la dimensione di questo fenomeno.  I dati ISTAT sulla rilevazione delle forze di lavoro dell’ultimo trimestre 2019, prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria per la pandemia da COVID-19, indicano 118.000 occupati nell’industria a livello regionale, che diventano 77.000 se si esclude il settore delle costruzioni. In percentuale sul totale degli occupati, la consistenza del comparto industriale così descritto equivale rispettivamente al 19,4% e al 12.6% del totale. Sembrerebbe così compiersi l’atto (finale?) di un lungo processo di terziarizzazione che ha segnato in modo indelebile la storia del territorio negli ultimi 40 anni.

In verità questo giudizio corrisponde solo molto parzialmente alla reale natura dei fatti, in quanto non tiene nella debita considerazione alcuni elementi fondamentali che hanno caratterizzato i processi produttivi in questa fase storica: la globalizzazione dei mercati e la conseguente articolazione delle catene internazionali del valore; l’outsourcing di componenti e funzioni aziendali, l’evoluzione della domanda – e conseguentemente dell’offerta – verso modelli di servitizzazione, il cambiamento degli stili di vita e il loro impatto sugli assetti urbani, la rivoluzione digitale e, non da ultimo, il cosiddetto green deal.  

La prima conseguenza di tutto ciò è la scomposizione dei processi manifatturieri in una successione di fasi che comprendono l’estrazione o il riciclo delle materie prime, la progettazione, la produzione di componenti, beni intermedi e prodotti finiti, la logistica, la commercializzazione, la manutenzione e i servizi post vendita; tutte fasi che, in quanto svolte da imprese autonome all’interno della filiera, solo parzialmente risultano svolte da aziende identificate dalla statistica come industriali. Questo fa sì che, stando al caso genovese e ligure, sia distorsivo considerare come esterna al processo industriale la componente logistico-portuale di cui, al contrario, è parte essenziale. Così come è distorsivo ritenere altra cosa rispetto alle catene del valore manifatturiere la consistenza delle imprese, figlie di un know-how radicato nella storia industriale della città, che svolgono attività di ricerca, innovazione tecnologica, ingegneria, management di processi, gestione dei dati.

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 D’altra parte, anche le imprese industriali in senso proprio stanno cambiando profondamente, almeno per le attività che svolgono in città. Uno degli interventi più significativi di trasformazione urbana, immaginato dal Piano Territoriale di Coordinamento degli insediamenti produttivi dell’Area Centrale Ligure alla fine degli anni ’80, è stata la realizzazione di un Parco Scientifico e Tecnologico sulla collina degli Erzelli, alle spalle di Sestri Ponente. Ad oggi il Parco, rinominato come Great Campus, ospita una ventina di imprese, alcune di grandi dimensioni e appartenenti, anche per la statistica ufficiale, al comparto industriale come Siemens, Ericsson ed Esaote; eppure da Erzelli non esce alcun “manufatto”, ma conoscenze, prototipi, software, sistemi.

I 150 anni di storia dell’industria genovese hanno consolidato un consistente tessuto di imprese (poco importa se catalogate ai fini statistici come “industriali”) operanti nel settore dell’alta tecnologia e che, nell’insieme, creano quello che spesso viene identificato come “ecosistema locale dell’innovazione”. Si tratta di oltre 3.700 imprese su scala regionale, che insieme ai centri di ricerca tradizionali come l’Università di Genova, il CNR e, dal 2006, l’Istituto Italiano di Tecnologia, occupano circa 35.000 persone all’interno di startup e piccole imprese innovative, medie e grandi aziende come Leonardo, Hitachi Rail STS, Rina, Algowatt, Engineering, Sedapta, che operano in un mercato internazionale.

Tra queste figurano anche le aziende che sviluppano impianti e macchinari con tecnologia proprietaria come Ansaldo Energia, ABB, ASG Superconductors, Toshiba, Tenova, Paul Wurth, Fisia Italimpianti.

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Un altro comparto industriale che continua ad essere caratteristico dell’industria genovese e ligure, nel filone di una forte specializzazione in prodotti ad elevato contenuto tecnologico è quello della cantieristica navale, che oltre alla presenza articolata del Gruppo Fincantieri sul territorio regionale, tra Genova, Riva Trigoso e La Spezia, affianca presenze significative di imprese private come i cantieri Mariotti, San Lorenzo e, nella nicchia del refitting di mega yachts di Amico & Co.

Passando dall’acqua all’aria, tra la produzione di mezzi di trasporto va certamente ricordata Piaggio Aereo Industries, che con il terzo millennio ha unificato gli stabilimenti produttivi di Genova e Finale Ligure nell’unico cento di Villanova d’Albenga.

Come detto, il porto e la gestione delle catene logistiche che nei teminal portuali hanno i loro snodi fondamentali, non sono altra cosa rispetto all’industria. Essi stessi sono sistemi organizzativi complessi, che necessitano di uno sviluppo tecnologico sempre più spinto unitamente a competenze gestionali in grado di reggere la concorrenza a livello continentale e globale.

Con l’ultima riforma legislativa, l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale comprende la gestione dei porti di Genova e Savona, all’interno dei quali alla piattaforma dedicata al traffico contenitori del Vte a Prà Voltri, si è recentemente affiancata l’ulteriore piattaforma di Vado Gateway. All’altro lato della Regione, l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Orientali si estende dal porto di La Spezia fino a Marina di Carrara.

Il futuro dirà in che modo si sarà saputo non soltanto gestire in maniera efficiente il volume crescente dei traffici portuali con origine e destinazione globale, ma anche sviluppare settori qualificati dell’indotto industriale che possono beneficiare di infrastrutture adeguate a filo banchina per la finitura e preparazione di merci – ad esempio impianti e beni di grande dimensione - prima dell’imbarco per le destinazioni finali.

Non solo merci, comunque: Genova sta sviluppando la propria funzione come punto di attracco di reti primarie sottomarine per la trasmissione di dati in fibra ottica; al progetto BlueMed attualmente sviluppato da TIM Sparkle per il miglioramento sostanziale della connettività tra Europa, Medio Oriente, Africa e Asia, è previsto che facciano seguito altri operatori e che Genova, in analogia a Marsiglia, possa candidarsi a essere centro eleggibile per la localizzazione di data center e connesse funzionalità.

Si sostiene spesso, e a ragione, che l’economia ligure si poggia principalmente su tre gambe: l’alta tecnologia, il porto e il turismo.

Non è fuor di luogo comprendere il turismo (o come sarebbe più corretto dire “i turismi”) tra le categorie dell’industria.

L’enorme sviluppo del settore delle crociere, con gli home port liguri di Costa Crociere e MSC, mette in evidenza la necessità di un’organizzazione sofisticata di tipo industriale per gestire un mercato e flussi di clienti di tale dimensione e che trova, sullo stesso territorio ligure, i centri per la costruzione delle più innovative navi del settore.

Tuttavia, l’industria dei turismi, non è e non può essere solo mercato delle crociere. Dalla fine del secolo scorso, progressivamente Genova e la Liguria hanno scoperto una propria vocazione, che corrisponde a reali motivi di interesse su cui si può far leva, per l’attrazione di importanti e crescenti volumi di turisti, non solo nel comparto leisure, ma anche B2B. La pandemia da COVID 19 impone certamente di ripensare a come evolverà questa componente così fondamentale anche per l’economia ligure, ma di certo non ne ha annullati i presupposti.

Ma la sfida più importante che Genova e la Liguria devono vincere è quella demografica; creare le condizioni affinché, oltre a rimanere, un numero sempre maggiore di persone decida di venire a vivere, studiare e lavorare in questo territorio così ricco di valori e di competenze, non sempre facile da apprezzare compiutamente.

Si tratta anche in questo caso di una grande impresa, di cui è lecito augurarsi un grande successo.

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Immagini fornite da Confindustria Genova

di Alessandro Lombardo

 

Sotto il Regno di Sardegna Genova e la Liguria sono al centro di importanti investimenti infrastrutturali (la costruzione della ferrovia Genova Torino viene avviata nel 1846) e industriali: nasce nel 1853 la Giovanni Ansaldo & Co e con questa l’industria manifatturiera ligure.

L’avvento del vapore e la crisi della marineria velica spingono il ceto armatoriale genovese a diversificare, trasferendo ingenti capitali dal comparto marittimo a quei rami dell’industria che possono garantire più sicuri margini di profitto anche grazie ai provvedimenti governativi. Al boom della industria meccanica si accompagna la crescita della siderurgia: Genova e la Liguria hanno il vento in poppa.

La situazione muta però radicalmente con la fine del primo conflitto mondiale: è necessario passare dalle produzioni di guerra a quelle di pace ma il contesto è difficile sotto il profilo sociale e politico: ristrutturazioni e fasi di fragile ripresa, con le principali aziende manifatturiere della Liguria, prevalentemente metalmeccaniche, controllate dal sistema bancario.

A poco a poco nascono però nuove iniziative imprenditoriali: Costa, Mira Lanza, Dufour…alla prossima puntata.

 

Planimetria generale degli Stabilimenti Gio.Ansaldo e C. di Genova 1846 1912

 

 

Verso un mondo industriale (1850-1880)

Il processo di trasformazione che porta gradualmente il settore industriale ad acquisire tratti innovativi ha luogo nei decenni che intercorrono tra la fine dell’età napoleonica e gli anni Ottanta del XIX secolo.

Nel 1830-1840, in Liguria, su una popolazione di quasi 700.000 abitanti, gli occupati nell’industria sono stimati in circa 68.000 unità: risultano addette al settore molitorio e a quello oleario rispettivamente 4.650 e 5.250. Circa 32.000 persone, inoltre, erano occupate nell’industria tessile e del vestiario nel circondario di Genova, in larghissima misura sono donne che svolgono la loro attività a domicilio.

Rarissime sono le fabbriche moderne: tra queste la fonderia dei fratelli Balleydier, provenienti dalla Savoia, apertasi a Sampierdarena nel 1832 e il lanificio D’Albertis a Voltri.

Nel corso degli anni Quaranta si registrano alcuni segnali di novità. Innanzi tutto sul piano del dibattito e della discussione culturale. Convinti assertori dell’importanza dello sviluppo di Genova – che faceva allora parte del Regno di Sardegna – in una prospettiva di modernizzazione complessiva dell’intero paese sono soprattutto personalità politiche e intellettuali quali Carlo Cattaneo e Camillo Benso conte di Cavour, ministro delle Finanze del Regno sardo e, dal 1852, primo ministro. Ripetutamente sollevata è la questione delle linee ferroviarie tra la città e il suo hinterland; già nel 1846 lo stato sabaudo decide di procedere all’appalto per l’esecuzione dei lavori di costruzione della linea Torino-Genova.

Si tratta di progetti e di concrete scelte destinati a modificare radicalmente la struttura economica della regione. La costruzione della ferrovia Genova-Torino, avviata nel 1846 è completata nel 1853; il collegamento ferroviario con Milano sarà realizzato nel 1861 e reso più diretto nel 1867: si riducono così drasticamente i tempi del viaggio da Genova ai grandi centri urbani del Nord, che passano dai 5-6 giorni prima richiesti (percorrendo la strada dei Giovi) a 5-6 ore. Il costo del trasporto delle merci, sulla base delle tariffe ferroviarie del 1860, si riduce anche dell’80% rispetto a quello sostenuto percorrendo la via carrabile.

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Nuove iniziative imprenditoriali possono così svilupparsi in un contesto più favorevole e con la consapevolezza di trovare nel governo piemontese un interlocutore attento.

Anche nel settore industriale compaiono però sulla scena imprese nuove, tanto nel campo delle public utilities - come la “Compagnie d’Eclairage par le Gaz” sorta nel 1846 - quanto nel comparto metalmeccanico. Nel 1845 inizia l’attività la fonderia Pezzi a Cogoleto nel 1846 aprono le officine meccaniche Westermann a Sestri Ponente e la Taylor e Prandi a Sampierdarena. Proprio quest’ultima, con la denominazione di Ansaldo, è destinata a diventare la più importante impresa industriale della storia genovese, e non soltanto, dell’Otto e del Novecento.

Altre imprese sorgono a Sampierdarena alla metà dell’Ottocento: tra esse la fonderia con annessa officina meccanica creata dall’ingegnere scozzese Thomas Robertson. Altri scozzesi, John Wilson e Alexander Maclaren, trovano lavoro dopo la guerra di Crimea proprio nello stabilimento di Robertson, rispettivamente come capo tecnico e come ingegnere, per poi fondare una propria officina sul litorale. Il quadro della Liguria industriale si va dunque modificando e il settore meccanico si affianca ai tradizionali comparti tessile e alimentare.

Il decollo industriale: dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale

L’industria della regione ligure conosce un importante salto di qualità negli anni Ottanta del XIX secolo.

Lo Stato promuove l’industrializzazione nella radicata convinzione che solo una robusta base industriale potesse permettere all’Italia di assumere quel ruolo di potenza europea che si pensava le dovesse competere; fondamentale in quest’ottica era il peso del settore metalmeccanico, legato alle commesse statali, militari in particolare, di fabbriche capaci di costruire grandi macchinari, navi da guerra e mercantili, materiali d’artiglieria e corazze e, alla fine del secolo, anche i nuovi prodotti del nascente settore elettrotecnico. Produzioni su commessa richiedenti adeguate competenze tecnologiche e scientifiche, realizzabili in stabilimenti di ragguardevoli dimensioni: su tutto ciò punta la borghesia industriale genovese.

È una scelta che premia il mondo imprenditoriale e caratterizza Genova in età giolittiana (1903-1914) come uno dei poli del triangolo industriale del paese.

Le scelte di investimento privilegiano settori quali il siderurgico, il navalmeccanico legato alle forniture statali, il cotoniero e il saccarifero. Nello stesso periodo si consuma la crisi della marineria velica, tradizionale asse portante dell’economia di Genova, di fronte all’ormai evidente affermazione della navigazione a vapore.

Il ceto armatoriale genovese opera un rilevante trasferimento di capitali dal comparto marittimo a quei rami dell’industria che, grazie ai provvedimenti governativi, possono garantire più sicuri margini di profitto.

Erasmo Piaggio ed Edilio Raggio, entrambi esponenti prestigiosi dell’armamento, sono indiscussi protagonisti di tale processo. Il primo entra nel settore dello zucchero (Raffineria Genovese, 1888) e poco dopo in quello navalmeccanico: prima fondando nel 1890 la Società Esercizio Bacini per la riparazione di grandi navi, più tardi acquisendo la maggioranza azionaria della Cantieri Navali Riuniti, che diverrà in seguito uno dei maggiori nomi della cantieristica navale.  Raggio rileva una ferriera a Sestri Ponente nel 1880, dotandola del primo forno Martin-Siemens della Liguria, e partecipa nel 1899 alla costituzione della società Elba; investe inoltre in imprese saccarifere (tra queste la Ligure Lombarda) e cotoniere.

Accanto a questi personaggi provenienti dal mondo armatoriale si distinguono imprenditori quali i fratelli Bombrini o Attilio Odero, in prima persona o per ragioni di famiglia interessati alla navalmeccanica, che potenziano gli impianti delle aziende.

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Dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla prima guerra mondiale la crescita dell’apparato manifatturiero genovese è costante e ci limitiamo qui a ricordare solo alcuni marchi: nel 1895 viene fondata, su spinta della tedesca AEG, la S.A. Unione Italiana Tramways Elettrici (poi UITE e oggi AMT), nel 1899 viene istituita la Silos di Genova e sempre in quell’anno la società Eridania fabbrica di zucchero e la Molini Alta Italia che a sua volta controlla numerose altre società; è del 1906 la compagnia di navigazione Lloyd Sabaudo; nel 1907 nasce la “Gaslini” industria olearia che, con una trentina di stabilimenti assunse una posizione dominante nel mercato oleario italiano. La Gaslini controllava altresì numerose aziende nel settore della trasformazione agricola, in quello della pesca ed anche nel settore bancario.

Nel 1903 il Consorzio Autonomo del Porto subentra a Camera di Commercio, Capitaneria e Genio civile nella gestione del porto di Genova.

Il “censimento degli opifici e delle imprese industriali” del 1911 fotografa i cambiamenti avvenuti nel settore secondario nell’arco di un trentennio. Gli addetti all’industria nel circondario di Genova sono 84.462: di questi 30.250 lavorano nel settore metalmeccanico, 20.411 nei comparti che utilizzano prodotti agricoli, della caccia e della pesca, 16.005 nel tessile, che ha quindi definitivamente perduto il suo primato.

La corsa agli armamenti del primo Novecento e la conseguente ripresa delle commesse pubbliche danno nuovo slancio a un tessuto produttivo che può superare la crisi del 1907 e appare sempre più segnato dalla centralità dell’industria pesante. Questa “monocoltura industriale” si rafforza negli anni della prima guerra mondiale, allorché si assiste a un notevole ingrandimento degli impianti e a una crescita altrettanto consistente dei livelli occupazionali.

Questo ben definito modello di sviluppo economico caratterizza anche le realtà urbane di Savona e La Spezia.

Nell’area savonese alla ferriera fondata nel 1861 dai savoiardi Giuseppe Tardy e stefano Benech (poi rilevata nel 1892 e potenziata dalla Terni) si affiancano le officine meccaniche Servettaz e altre imprese di minori dimensioni. Il processo di espansione delle attività produttive sul territorio investe ai primi del Novecento Vado Ligure, che completa la sua trasformazione da borgo marinaro in centro industriale: vi si insediano nel 1906 una fabbrica di refrattari per la siderurgia e nel 1907 la statunitense Westinghouse che apre uno stabilimento per la produzione di locomotive elettriche. Sempre a Vado, alla fine dell’Ottocento, viene collocato un deposito costiero di prodotti petroliferi, successivamente acquisito dalla Società Italo Americana pel petrolio. Siamo ancora nell’ “età del carbone”, che abbondante arriva dall’Inghilterra nei porti di Genova e Savona, ma è significativo questo precoce esordio del settore petrolifero che tanta importanza avrà nel secolo seguente. Nella Val Bormida si localizzano invece alcune imprese del settore chimico: la Società italiana prodotti esplodenti (SIPE), con il suo dinamitificio, e la Ferrania a Cengio.

A La Spezia risulta decisiva la decisione assunta già dal parlamento del regno sardo nel 1857, su proposta di Cavour, di creare un grande arsenale navale militare dove per conto della Regia marina si effettuano riparazioni sul naviglio e sino alla prima guerra mondiale costruzioni di imbarcazioni di vario tonnellaggio. Ai primi del Novecento l’Arsenale occupa più di 5.000 addetti e funge da volano alla crescita industriale della città, favorendo la collocazione di numerose imprese private (ad esempio le officine del Muggiano della Cantieri Navali Riuniti e della Fiat-Muggiano, poi Fiat San Giorgio). In tarda età giolittiana la multinazionale britannica Vickers decide di impiantare d’intesa con la Terni proprio a La Spezia un moderno stabilimento per la produzione di materiale d’artiglieria. L’espansione demografica della città (31.565 abitanti nel 1881, 68.203 nel 1911) è diretta conseguenza dell’avvenuta industrializzazione.

Resta escluso da questo processo l’estremo Ponente ligure. Scarsa è la presenza dell’industria, fatta eccezione per talune aziende (Agnesi, Sasso, Carli, Isnardi, Berio) attive nel settore dell’olio e della pasta, che tra il 1890 e il 1914 stimolano la crescita economica della provincia; questa è comunque prevalentemente dedita all’agricoltura, al terziario e alla nascente “industria del turismo”, che garantisce a località quali Sanremo e Bordighera una fama internazionale.

Da segnalare la nascita, a Chiavari nel 1870, ad opera di imprenditori locali, di un Banco di Sconto del Circondario di Chiavari che nel 1921 assume la ragione sociale Banco di Chiavari e della Riviera Ligure e diventa uno dei più importanti istituti di credito del capoluogo ligure.

La Grande Guerra, la crisi del dopoguerra e gli anni Venti con una nuova classe imprenditoriale

L’inizio nel 1914 della prima guerra mondiale, cui dal 1915 l’Italia partecipa direttamente, segna il momento di gloria di quel complesso militar-industriale che era venuto irrobustendosi nei precedenti decenni. Lo Stato interviene massicciamente nel dirigere la produzione bellica: è cliente delle imprese generoso nei pagamenti, provvede col sistema della mobilitazione industriale a privilegiare in vari modi gli stabilimenti che vengono dichiarati ausiliari allo sforzo bellico: garantisce ad essi più regolari rifornimenti di materie prime, dispensa dalla chiamata alle armi gli operai specializzati difficilmente sostituibili ed esenta dal servizio militare altri lavoratori che vanno a gonfiare gli organici delle imprese metalmeccaniche.

Il numero delle officine “ausiliarie” in Liguria rende chiara la portata del fenomeno: esse sono 56 nel 1915 e 200 nel 1918, allorché occupano quasi 150.000 persone (70.000 sono lavoratori metalmeccanici impiegati nelle fabbriche del circondario di Genova).

La vicenda dell’Ansaldo, ora di proprietà dei fratelli Mario e Pio Perrone, è emblematica di questa eccezionale congiuntura. L’Ansaldo cresce, moltiplica i suoi stabilimenti (se ne conteranno 30 di cui 22 nell’area genovese), assume nuovi operai che nel 1918 ammontano a circa 60.000 (80.000 sono gli addetti del gruppo comprendendovi anche le società controllate).

Dalle fabbriche Ansaldo escono cannoni, apparati motori, corazze, proiettili, navi e anche aeroplani.

All’innovativa produzione aeronautica si dedica dal 1915 anche la Piaggio, negli stabilimenti di Sestri Ponente e di Finale Ligure.

Al boom, della meccanica si accompagna la crescita della siderurgia, che alla prima è strettamente collegata. Imprese quali l’ILVA, la Siderurgica di Savona, le Ferriere di Voltri fondate dai Tassara (tutte destinate a essere assorbite nella prima) e la Bruzzo concorrono a portare nel 1917 la produzione regionale di acciaio a 422.000 tonnellate (il 32% della produzione nazionale).

La situazione muta però radicalmente con la fine delle ostilità: è necessario passare dalle produzioni di guerra a quelle di pace e tutto ciò deve avvenire in un contesto difficile sotto il profilo sociale e politico. Sotto il profilo economico la crisi postbellica in Liguria è punteggiata da crolli (clamorosi quelli dell’Ilva e dell’Ansaldo dei Perrone, allora le due principali società manifatturiere italiane) e ridimensionamenti; maggiore diviene il coinvolgimento delle banche miste nella proprietà delle imprese come la Banca Italiana di Sconto; lo Stato interviene direttamente a sostegno di aziende che non riescono, o non possono, operare la riconversione a produzioni di pace. La Banca Commerciale Italiana controlla l’Ilva siderurgica, affidata alla direzione di Arturo Bocciardo; la Banca d’Italia, attraverso il Consorzio Sovvenzioni Valori Industriali, dispone delle azioni dell’Ansaldo privatizzata nel 1925 e legata poi al Credito Italiano (nata nel 1870 dalla preesistente Banca di Genova). Negli anni Venti si succedono dunque pesanti ristrutturazioni e fasi di fragile ripresa. Le principali aziende manifatturiere della Liguria, la quasi totalità delle grandi imprese metalmeccaniche, sono ormai   controllate dal sistema bancario.

È del 1924 l’avvio dell’attività armatoriale della famiglia Costa già dal 1849 presente in campo oleario e che, con il secondo dopoguerra sviluppa forti interessi nei settori tessile, meccanico, edile e alberghiero; il 1924 è anche l’anno di nascita, a Genova, della Mira Lanza, società che arrivò negli anni Sessanta-Settanta a detenere, in Italia, la leadership nella produzione di detersivi. E’ del 1926 l’avvio della Caramelle San Giacomo (poi Dufour e quindi nel 1975 Elah Dufour) ad opera dei Dufour, famiglia di imprenditori di origine francese, attiva sin dalla metà dell’Ottocento nei settori immobiliare e alimentare.

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di Alessandro Lombardo

Il 1929 è un anno terribile per l’economia mondiale, crolla la borsa di Wall Street e il venerdì nero colpisce in pieno l’Europa. Le conseguenti difficoltà dell’apparato industriale si ripercuotono direttamente sulle più importanti banche che detenevano nel proprio portafoglio i pacchetti azionari di controllo di numerose imprese. Per evitare il tracollo lo stato interviene creando l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che si fa carico delle passività delle banche e trovandosi quindi proprietario di parti rilevanti dell’apparato industriale del paese. Genova in particolare può a buon diritto essere considerata la “capitale delle partecipazioni statali” poiché ricca di industrie e d’imprese coinvolte nella riorganizzazione. L’IRI continua ad operare anche nel secondo dopoguerra riorganizzando nuovamente le grandi imprese italiane modificando ulteriormente l’assetto industriale ed imprenditoriale del paese. Negli anni ‘60 la ripresa economica segna un andamento positivo per l’industria ligure fino alla fine degli anni ‘70 e inizio degli anni ‘80 quando la crisi del nucleare segna profondamente l’Ansaldo e il settore navale subisce pesanti ridimensionamenti. La seconda metà del ‘900 vede quindi molteplici e significative modificazioni del mondo delle imprese e dell’industria e la Liguria spicca in particolar modo sia per rinnovamento e diversificazione ma anche ridimensionamento.

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 Il crollo del 1929 e gli anni Trenta e lo Stato imprenditore

Il 1929 si apre con l’acquisizione di un’importante commessa da parte dell’Ansaldo, cui la Navigazione Generale Italiana ordina un grande transatlantico, il Rex, che nel 1933 conquisterà il premio internazionale Nastro azzurro per aver compiuto la traversata dell’Atlantico nel tempo record di 4 giorni e 14 ore. Tra il 1929 e il 1933 cambia però in peggio lo scenario dell’economia mondiale. La crisi che ha come epicentro gli Stati Uniti (crollo della Borsa di Wall Street a New York, del 29 ottobre 1929) e investe anche l’Europa. In Italia la negativa congiuntura assume connotati particolari, che rischiano di compromettere la politica del regime fascista volta a consolidare il consenso che si voleva creare attorno al governo: le difficoltà dell’apparato industriale si ripercuotono direttamente sulle più importanti banche miste che detenevano nel proprio portafoglio i pacchetti azionari di controllo di numerose imprese. Per evitare il tracollo delle banche lo stato interviene: nel 1933 viene creato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che si fa carico delle passività delle banche acquisendone le attività e trovandosi quindi proprietario di parti rilevanti dell’apparato industriale del paese.

Nasce lo Stato imprenditore: proprio la Liguria è sede di molte delle principali società che finiscono in mano pubblica (si tratta delle imprese metalmeccaniche Ansaldo, Ilva, OTO, Oarn, Fossati, Termomeccanica, oltre che di compagnie di navigazione) e Genova in particolare può a buon diritto essere considerata la “capitale delle partecipazioni statali”. Una nuova generazione di manager pubblici si affaccia alla ribalta. Alcuni di loro sono protagonisti del riassetto delle aziende metalmeccaniche liguri: Agostino Rocca, ingegnere dal 1935 alla testa di Ansaldo e Siac, e Oscar Sinigaglia, che guida la Finsider (holding finanziaria dell’IRI per la siderurgia). L’industria genovese nella seconda metà degli anni Trenta si risolleva dalla crisi grazie, ancora una volta, alle generose e abbondanti commesse pubbliche legate alla politica di riarmo e bellicista del fascismo.

Si ripropone così lo schema che vede le fabbriche della città come “arsenali” di guerra. A dimostrazione dell’avvenuta ripresa i dipendenti dell’Ansaldo (scesi da 13.400 a 9.200 unità nel triennio 1930-1932) ammontano a 16.500 nel 1936 e a 23.000 nel 1939.

Un andamento analogo mostrano le vicende dell’industria a Savona e a La Spezia. Particolarmente dinamico si dimostra nel Savonese il comparto chimico. A Vado l’Italgas crea una cokeria e quindi, d’intesa con la Montecatini, costituisce la Cokitalia. Nel 1937, in Val Bormida, nasce dalla fusione della Film e della Cappelli la Ferrania, che produce pellicole fotocinematografiche e materiali per radiografie. A Cengio è inoltre attiva l’Acna (Azienda colori nazionali affini). La crescita del settore chimico (che con quasi 7.000 addetti nella provincia alla vigilia della seconda guerra mondiale è secondo al solo comparto meccanico – 8.000 occupati -) contribuisce in misura rilevante al potenziamento dell’industria in provincia di Savona. La realtà spezzina è sempre influenzata dalle esigenze della marina militare e dell’industria degli armamenti. Il lavoro delle fabbriche legate alle costruzioni navali, intenso nella seconda metà del decennio, stimola i traffici portuali che, misurati in migliaia di tonnellate di merci imbarcate e sbarcate, raggiungono il loro massimo storico nel biennio1938-1939.

La seconda guerra mondiale e la ricostruzione (1940-1950)

L’apparato industriale della Liguria è travolto, come l’intero paese, dall’esito catastrofico della guerra iniziata nel giugno 1940 a fianco della Germania. Dopo l’8 settembre 1943, dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati, le truppe tedesche, diventate forze di occupazione, puntano a trasferire gli impianti in Germania o in altre zone dell’Italia del Nord, incontrando spesso la resistenza passiva dei dirigenti, delle maestranze e della resistenza che nelle officine liguri trova un teatro di operazioni ed un luogo di reclutamento. Alla fine della guerra – a partire dal maggio 1945 -  si impone dunque una ricostruzione materiale e morale del paese.

La ripresa è resa più lenta dalle difficoltà del dopoguerra. Nell’estremo Ponente ligure gli impianti di raffinazione dell’olio e i pastifici non ricevono adeguati rifornimenti di materie prime; le grandi fabbriche metalmeccaniche di Genova, Savona e La Spezia devono ancora una volta effettuare una complessa riconversione produttiva abbandonando le lavorazioni belliche per intraprendere produzioni civili.

Soggetto decisivo di politica industriale è nella regione l’IRI: nel 1946 l’istituto dà lavoro nella sola Genova a circa 50.000 persone (30.000 all’Ansaldo, oltre 8.000 alla San Giorgio, 5.600 alla Società Italiana Acciaierie di Cornigliano, 4.200 all’Ilva); le aziende private con più di mille dipendenti sono la Piaggio e la Bruzzo (quest’ultima con 2.000 occupati nelle acciaierie di Bolzaneto). Nel 1948-1949 l’IRI definisce articolati piani di ristrutturazione che interessano tanto il settore meccanico quanto quello siderurgico. Nel 1948 nasce la Finmeccanica, cui fanno capo società con complessivi 50 stabilimenti e 88.500 dipendenti. Nel 1949-1950 la holding procede a una riorganizzazione delle imprese controllate. L’Ansaldo subisce una radicale trasformazione, perdendo alcuni stabilimenti e acquisendo i cantieri navali della Odero-Terni-Orlando di Livorno e del Muggiano (La Spezia): diviene dunque un’azienda prevalentemente, anche se non esclusivamente, navalmeccanica. Si costituisce l’Ansaldo San Giorgio che rileva anche gli impianti elettrotecnici dell’Ansaldo e della San Giorgio (controllata dall’IRI dal 1946) siti in Genova. A La Spezia la Termomeccanica Italiana è scorporata dalla Odero-Terni-Orlando e intraprende la produzione di impianti frigoriferi industriali, compressori e pompe; rinasce la Oto Melara, che si dedica alla fabbricazione di macchine tessili e poi di armamenti.

Nel 1945 torna al vertice della Finsider Oscar Sinigaglia: egli può così rilanciare il progetto della creazione, a Genova-Cornigliano, di un grande stabilimento siderurgico a ciclo integrale. Il respiro europeo del disegno di Sinigaglia sarà testimoniato di lì a poco dalla presentazione, nel 1950, del Piano Shuman che si tradurrà nel 1951 nella costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. 

A Genova, la cui lunga storia siderurgica, si sostanzia in una massiccia presenza nell’area metropolitana di fabbriche e di sedi centrali di imprese il peso maggiore lo hanno le aziende facenti capo alla Finsider (l’Ilva con quattro stabilimenti, che occupano nel 1948 4.842 addetti, e la Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (SIAC). Il piano prevede, oltre alla realizzazione del nuovo stabilimento, la chiusura dei vecchi impianti Ilva, la specializzazione della SIAC nella produzione di fucinati e pezzi fusi di grandi dimensioni. Nel 1950, utilizzando i fondi del piano Marshall, si avvia la costruzione del centro siderurgico su terreni ottenuti con riempimenti del mare: opera colossale che termina nel 1953 allorché le acciaierie vengono conferite alla società Cornigliano e intitolate a Sinigaglia, scomparso in quello stesso anno.

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Dal “miracolo economico” all’emergere di un’economia “post-industriale”

 

Il periodo compreso tra il 1950 e l’inizio degli anni Settanta è caratterizzato, nell’intero Occidente, e, quindi, anche in Italia, da una prolungata e significativa crescita economica. Aumenta il reddito complessivo del paese, migliorano le condizioni di vita di milioni di italiani che conoscono, spesso per la prima volta, il benessere della società dei consumi di massa. La Liguria è pienamente inserita in tale processo storico-economico.

Il comparto meccanico non supera però le sue permanenti difficoltà. La San Giorgio viene suddivisa nel 1954 in diverse imprese: avranno vita non effimera il ceppo da cui in seguito si svilupperà la ELSAG, attiva nell’elettronica, e la Elettrodomestici San Giorgio (a La Spezia). Viene liquidata nel 1959 l’Ansaldo Fossati, passata nel dopoguerra dalla produzione di carri armati a quella di trattori pesanti; faticano l’Ansaldo San Giorgio, impresa elettromeccanica poi fusa nel 1966 con la milanese Compagnia Generale di Elettricità per dar vita all’ASGEN, e la stessa Ansaldo.

Nel 1966 una nuova ristrutturazione voluta dall’IRI coinvolge l’Ansaldo, privata dei cantieri navali attribuiti a una società pubblica appena costituitasi, l’Italcantieri, con sede a Trieste. A parziale compensazione di questa decisione, l’IRI, con la costituzione dell’Ansaldo Meccanico Nucleare, punta a creare proprio nel capoluogo ligure il polo strategico dell’industria nucleare italiana. Più positivo è l’andamento del settore siderurgico, soprattutto con lo stabilimento di Cornigliano, e dall’industria dell’elettrodomestico, entrambi in fortissima crescita.

Impetuoso è lo sviluppo del comparto della raffinazione del petrolio. A La Spezia la raffineria della Shell lavora nel 1949 350.000 tonnellate di greggio, nel 1960 2.200.000 tonnellate. Raffinerie sorgono e si ampliano a Genova (importantissime quelle della ERG fondata da Edoardo Garrone) e a Busalla (IPLOM); nel complesso la produzione del settore nella regione passa da 4.701.621 tonnellate nel 1960 a 10.124.950 tonnellate nel 1965.

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Con gli anni Settanta termina la fase di maggiore espansione economica del mondo occidentale. Gli shock petroliferi, col brusco aumento del prezzo del greggio, il disordine monetario internazionale, il malessere sociale che investe i paesi industrializzati, nuovi scenari competitivi sul mercato mondiale: questi alcuni dei principali fattori che influenzano negativamente l’andamento delle economie europee e, naturalmente, anche dell’Italia. La Liguria è investita in pieno da questo processo, che colpisce in modo particolare la struttura industriale della regione. Il risultato di ciò è evidenziato dai dati relativi all’occupazione industriale: se nel 1961 erano occupati nel settore secondario nell’intera regione 220.000 persone, il loro numero scende a 183.000 nel 1981 per ridursi ulteriormente a 131.000 nel 1991. Nell’ultimo decennio del Novecento gli addetti all’industria sono meno del 25% della forza lavoro complessivamente occupata in Liguria.

Dietro tali cifre, in ogni caso eloquenti, si nascondono dinamiche specifiche e realtà talvolta in controtendenza. La crisi colpisce, per ragioni di carattere generale e per motivi particolari, molti dei settori portanti dell’industria ligure. La siderurgia attraversa negli anni Settanta una fase di grave difficoltà, percepibile a livello di comunità europea, che aggrava drammaticamente i conti dell’Italsider; l’abbandono del nucleare, deciso di fatto dal referendum del 1987 svoltosi dopo l’incidente occorso alla centrale di Chernobyl, crea non pochi problemi al raggruppamento Ansaldo; in difficoltà appare anche il settore chimico: alle ragioni “industriali” si aggiunge in questo caso l’emergere della questione ambientale. Cambia infatti la sensibilità di una popolazione che non è più disposta a tollerare la convivenza con impianti inquinanti: interrompono negli anni la propria attività le raffinerie ERG a Genova, l’Acna a Cengio, l’Enichem Agricoltura a S. Giuseppe di Cairo, la Stoppani a Cogoleto; si limita alla movimentazione del carbone senza lavorarlo la Fornicoke di Vado Ligure.

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta anche il comparto delle costruzioni e riparazioni navali subisce forti ridimensionamenti. Il processo di ristrutturazione implica inoltre un cambiamento storico nella composizione della forza lavoro industriale: diminuiscono nettamente, in cifre assolute e in percentuale, le tradizionali figure operaie, le tute blu, mentre aumentano invece gli impiegati, i colletti bianchi. Non mancano alcune realtà dinamiche. Tra esse si segnalano il settore cantieristico navale e la nautica da diporto (ricordiamo ad esempio i cantieri Baglietto di Varazze).

Vi sono inoltre importanti nuclei di imprese attive nel comparto dell’elettronica, e di altre singole aziende leader nel loro ramo. È il caso della Esaote (poi Esaotebiomedicale) azienda leader in Italia nel campo biomedicale e della Boero, specializzata nella produzione di colori e di vernici per la nautica.

Con la fine del sistema delle partecipazioni statali, con l’avvenuta liquidazione dell’IRI si ha la privatizzazione di molte delle imprese controllate dall’ente. Così l’impianto siderurgico di Genova Cornigliano, viene rilevato dal gruppo lombardo Riva; restano in mano pubblica la Fincantieri, che raccoglie i cantieri navali ancora attivi in regione, la ElsagDatamat e alcune società (come Ansaldo Energia o Ansaldo STS) nate dallo scorporo dell’Ansaldo.

Non manca una presenza significativa di grandi imprese multinazionali nei comparti dell’alimentare, del vetro (Saint Gobain nel Savonese), dell’elettronica (dalla britannica Marconi prendono corpo a Genova la Selex Communication della Finmeccanica e la Ericsson). Cospicua rimane la realtà dell’industria metalmeccanica a La Spezia, con aziende attive sul mercato internazionale quali Oto Melara, Fincantieri e Termomeccanica che si affiancano all’Arsenale.

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Immagini provenienti dalla Fototeca di Fondazione Ansaldo