La Storia per immagini, proposta e comunicata dai media di nuova generazione e programmazione, sembra talvolta trasformarsi in un immenso deposito di trovarobato, di reperti collocati nell’orizzonte piatto della curiosità, dove tutto significa senza gerarchie e senza appartenenza a un contesto culturale e ambientale.
La Storia si muta in antiquariato per essere venduta con più facilità, assecondando il gusto delle mode. Comprendere il presente attraverso il passato e comprendere il passato attraverso il presente, in una trama fittissima di cause ed effetti, non sembra più una priorità del conoscere. L’immagine perde la sua trasparenza storica per diventare un oggetto, un’icona da ammirare o deplorare, un feticcio che trae valore da se stesso. Di conseguenza la missione di una Cineteca non è solo quella istituzionale di ricercare, acquisire e conservare pellicole, nastri e dischetti, ma anche quella di offrire una potenzialità di lettura progressiva delle immagini, perché il destino della pellicola non è tutto previsto nella fissità dei fotogrammi impressionati.
Col passare del tempo la pellicola si impoverisce nel supporto fisico, ma si arricchisce nella complessità del significare, nella stratificazione della memoria, nell’espressività documentale.
In una Cineteca il film non è mai concluso in se stesso, è sempre un film in progress nella contemporaneità della visione, nella rilettura con sguardi diversi rispetto a quelli delle origini produttive. Il documento cinematografico, nella sua apparente immediatezza, nel suo “esserci” oggettivo, induce alla credenza più che all’analisi storica e tende quindi ad affermarsi come mito. Le riprese del varo del Rex o del Conte di Savoia denotano il trionfalismo dell’industria italiana dei primi anni trenta e connotano l’immaginario del regime nel giubileo della Marcia su Roma. Ma dietro quelle immagini da primati internazionali i diversi saperi della storia riescono a leggere ciò che non appare: l’assurdo prestigio transatlantico in anni di profonda crisi delle linee passeggeri verso le Americhe, la rivalità tra la cantieristica navale genovese (Rex) e quella triestina (Conte di Savoia), la concorrenza tra la Navigazione Generale Italiana (Rex) e il Lloyd Sabaudo (Conte di Savoia), l’Italia nazionalista di Mussolini (Rex) e quella sabauda (Conte di Savoia), l’arredo eclettico e fastoso del Rex e il moderno Novecento degli interni del Conte di Savoia.

La conservazione materiale dei film non è sufficiente, perché una Cineteca è fatta soprattutto dai film che non sono fisicamente presenti: sono i film da farsi, quelli che testimoniano il senso involontario, il significato che sta fuori dai bordi della pellicola, ma scorre in sincrono come una pista nascosta da portare alla luce.
L’archivio delle immagini deve trasformarsi in un laboratorio del saper vedere oltre il riservato schermo della moviola. È la molteplicità degli sguardi scientifici che ingrandisce i fotogrammi nel grande formato della storia.
Dalla sua nascita nel 1988 la Cineteca della Fondazione Ansaldo ha operato in una prospettiva interdisciplinare, considerando il film non solo come oggetto museale destinato al restauro, ma come processo culturale alimentato dalla conoscenza archivistica, storica, cinematografica, sociologica, economica, artistica, territoriale e ambientale. Siamo noi, spettatori di oggi e di domani, che proiettiamo la nostra attualità critica e interpretativa sulla pellicola di ieri, rendendo ancora vivo quel nastro di celluloide chiuso in un sarcofago di latta.
 

La civiltà delle immagini cinematografiche è prodotta dalla civiltà industriale della fine dell’Ottocento e del Novecento ed è quindi naturale che il cinema manifesti un interesse specifico verso il mondo industriale di cui è una creatura. Il cinema, sin dalle sue origini, tende a proporsi come un occhio meccanico in grado di fornire l’immagine e l’immaginario della fabbrica, del lavoro, del prodotto e del suo uso nella realtà sociale. Non a caso le prime vedute dei fratelli Lumière nel 1895 sono concepite come un innovativo e  orprendente mezzo per fare pubblicità all’azienda fotografica di famiglia, e il cinema sarà destinato a un grande sviluppo poiché la sua nascita si colloca nel momento in cui la moderna società di massa è in via di formazione. Tra cinema e industria si crea un particolare rapporto di specularità in quanto il film diventa oggetto e soggetto industriale nello stesso tempo: è un prodotto dell’industria che riflette l’immagine dell’industria. Quando Edison o i Lumière filmano un treno in movimento intuiscono una moderna coincidenza eccanica: mezzo di trasporto fisico, il treno, mezzo di trasporto della mente e dell’emozione, il cinema. Entrambi trasportano masse di passeggeri viaggiando sopra scorrevoli percorsi. Dal treno dei Lumière alle tematiche della fabbrica e dell’industrializzazione il passo è breve e si determina già nei primi venti anni di maturazione del mezzo cinematografico ad opera di registi-documentaristi che, lavorando spesso in centri cinematografici che si vanno strutturando presso aziende pubbliche e private, consegnano alla memoria documenti relativi a procedimenti e prodotti industriali e al loro contesto d’uso.

Il film industriale si impone così come una fonte storica di primaria importanza, tanto più utile quanto più sottratta alla tentazione di una riduttiva settorialità. Infatti una memoria industriale per immagini, proposta non come pura illustrazione documentaria ma come riflesso degli atteggiamenti culturali nei confronti dell’industria, dei suoi prodotti e delle sue funzioni, diventa indispensabile per elaborare e conservare la dimensione storica e collettiva di un territorio, di un’epoca, di un humus ambientale, dei comportamenti sociali e delle dinamiche dell’intraprendere.
L’attività di ricerca e di conservazione documentaria della Cineteca della Fondazione Ansaldo ha privilegiato il cinema industriale delle aziende liguri protagoniste dello sviluppo economico italiano: Ansaldo e Ilva in primo piano nei settori strategici della meccanica, della cantieristica, dell’elettromeccanica, dell’energia, della siderurgia.

Il fondo cinematografico dell’Ansaldo, che comprende film databili tra il 1910 e i giorni nostri, ha rappresentato il nucleo originario della Cineteca e offre una lettura sincronica dell’azienda, dagli anni di Mario e Pio Perrone a quelli di Agostino Rocca, dalla ricostruzione del secondo dopoguerra all’esportazione dell’impiantistica nei paesi in via di sviluppo. E occorre ricordare che i Perrone sono stati tra i capitani d’industria dei primi due decenni del Novecento maggiormente sensibili all’immagine aziendale, nutrendo un particolare interesse nei confronti del mezzo cinematografico, soprattutto durante la Grande Guerra. A partire dal 1916 Pio e Mario Perrone intuiscono che il cinema può essere il supporto più efficace alla propaganda aziendale e all’impegno nazionale. Intuiscono anche che il futuro è di chi sa diffondere la suggestione mitica, ponendosi contro La cineteca della Fondazione Ansaldo IX il modello di Giolitti, sentito come interprete di una cultura industriale troppo tecnica e razionalistica, lontana dal sentire comune delle masse. Quando nel dopoguerra l’Ansaldo deve affrontare la riconversione, da officina bellica ad officina per la pace, progetta un film di finzione che dovrebbe, con indubbia originalità di comunicazione, attirare l’attenzione del Governo e dell’opinione pubblica sui problemi e le minacce che incombono sulla grande fabbrica siderurgica e meccanica italiana.

cinete4L’ambiziosa iniziativa, ideata dall’avvocato Vittorio E. Bravetta, si intitola Prometeo e vuole essere una versione moderna del mito greco. Protagonista del film è una titanica figura di industriale che si prodiga nell’incitamento morale al lavoro e ai sentimenti del dovere e dell’onore: contro le insidie di una banda di stranieri che impedisce all’industria italiana di rifornirsi delle materie prime di cui ha bisogno, dopo rocambolesche peripezie, il moderno Prometeo trova sulle montagne di Cogne le risorse materiali ed energetiche per il futuro dell’azienda e dell’Italia. Il direttore dell’Ufficio Pubblicità dell’Ansaldo, creato nel 1920 per promuovere un’area di consenso attorno alle scelte di riconversione e di politica finanziaria dell’azienda, riferisce a Pio Perrone:
“Queste straordinarie avventure permettono di formare davanti agli occhi degli spettatori tutta la vastissima produzione della nostra Ditta, senza che in alcun modo la film assuma il carattere di una vera e propria rèclame, perché se così fosse, essa perderebbe la maggior parte del suo valore suggestivo ed anche del suo valore commerciale e la renderebbe di più difficile diffusione”.
Ma questo progetto, animato da una politica pubblicitaria spregiudicata per i tempi, non verrà realizzato a causa delle gravi difficoltà finanziarie e delle complesse vicende relative alla proprietà dell’azienda nei primi anni Venti.
Assieme al fondo Ansaldo sono stati acquisiti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta gli archivi cinematografici dell’Ilva e della Società di Navigazione Italia, un patrimonio documentale indispensabile per ricostruire visivamente la storia di Genova come capoluogo della meccanica, della siderurgia, della cantieristica navale e del trasporto marittimo di passeggeri e merci. I filmati provenienti da questi tre fondi permettono di ricostruire una storia del grande sistema imprenditoriale genovese che attraversa in forma diacronica il Novecento:
l’armamento e il traffico legato ai flussi migratori verso le Americhe, la produzione bellica durante la prima guerra mondiale, in cui l’Ansaldo dei Perrone primeggia come arsenale dell’artiglieria, come cantiere delle navi da battaglia e degli aerei da combattimento, la difficile riconversione industriale del dopoguerra, il primato nella navalmeccanica negli anni Venti e Trenta, il riarmo e le distruzioni causate dal secondo conflitto mondiale, la ricostruzione e la strategia dell’acciaio sul mare, l’ambiziosa ripresa della costruzione di transatlantici prestigiosi, Genova come capitale della siderurgia, dell’impiantistica e della produzione di energia elettronucleare.
Il film industriale fornisce un’interpretazione predeterminata dell’oggetto realizzato e del processo produttivo che trascende l’atteggiamento della neutralità oggettiva.
La sua lettura esige di superare l’apparente ingenuità referenziale delle riprese considerando che i livelli di fruibilità del documento filmico sono complessi e stratificati. Ad esempio, il film Varo della motonave Augustus (1926) nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente illustra un procedimento tecnologico che può interessare l’archeologia industriale (varo su scalo, centinature in legno come struttura portante a terra della nave…). Il varo viene ripreso nella progressione operativa con un cambio di inquadrature e un ritmo di montaggio che trasfigurano la dinamica operativa. Dopo che gli operai hanno liberato lo scafo dall’armatura d’appoggio l’azione si accende, assume forme drammatiche e coinvolgenti procedendo verso il culmine trionfale della discesa in mare. Il cinema rielabora e tramanda il grande rito collettivo del varo, che nella fattispecie dei processi industriali non ha rivali nella produzione immaginaria ed emotiva. Il teatro del varo mette in scena una monumentale liturgia della comunità in cui tutti si sentono uniti nel valore sacrale del lavoro. Anche la cornice politica e simbolica dell’evento attiva ulteriori livelli di significazione. L’Italia del 1926 che si sta fascistizzando in forme sempre più organiche si autocelebra non solo nel prodotto transatlantico, ma anche nella visione interclassista e corporativa della società espressa dall’evento: operai e gerarchi, maestranze e autorità, borghesia e proletariato, Edda e Arnaldo Mussolini, barcaioli e cineoperatori del Luce sono tutti uniti nell’orgoglio per lo sforzo industriale della nazione. L’economia fascista che pretende di edificarsi su un sistema corporativo si rispecchia nell’esaltante espressività di queste immagini.

cinete6Più rivolta all’allusività artistica si indirizza la lettura di un film come Napoli-Gibilterra, girato nel 1930 per magnificare le caratteristiche di funzionalità ecomfort del transatlantico Conte Grande: il film infatti descrive la nave non solo come oggetto industriale, ma anche come contenitore di manufatti di arredo e di decorazione, nella fattispecie realizzati da Adolfo Coppedé, colti all’interno delle sale nella loro effettiva dimensione d’uso.
Il documentario si arricchisce di allusioni connotative che evidenziano la totalità simbolica del transatlantico, sintesi di tecnologia e arte, di sperimentazione di materiali ed enfatizzazione dello stile di un’epoca, e anche immagine di una società rigorosamente divisa in classi, perfettamente ordinata attraverso disposizioni e modelli di comportamento. E il riconoscimento che la produzione navalmeccanica italiana si armonizza con la ricerca estetica, unendo tecnologia, aerodinamica, bellezza del disegno industriale, è percepibile nelle spettacolari riprese che il cinegiornale Fox Movietone News dedica al Rex sull’orizzonte dei grattacieli di New York a conclusione del suo viaggio inaugurale nel 1932.
L’immagine del regime che vuole un’Italia in armi, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, è offerta dall’impostazione della corazzata Littorio a Sestri Ponente nel 1936. La macchina da presa celebra l’evento riverberando il lavoro cantieristico su una grandiosa scenografia creata dalle masse, dalle camicie nere, dal sorvolo degli aerei, dal movimento titanico delle gru, dal sollevamento delle lamiere, e tutto sembra animarsi in una volontà sola, secondo gli schemi della propaganda e dell’organizzazione del consenso che deformano l’attualità cinematografica in mitologia della forza. Dieci anni dopo, nel 1946, il cortometraggio Porti d’Italia denuncia con drammatica trasparenza i disastri della guerra: la diga foranea del porto di Genova aperta dalle brecce delle mine ai violenti marosi, le navi affondate all’imboccatura, tra cui il transatlantico Augustus, vanto della Navigazione Generale Italiana alla fine degli anni Venti, e la portaerei Aquila allestita in tempo di guerra trasformando il liner Roma, un tempo adibito a lussuose crociere mediterranee.
Il necessario ottimismo della ricostruzione della flotta passeggereri viene espresso dalle immagini a colori del viaggio inaugurale del Giulio Cesare (1952), come se il bianco e nero appartenesse alla superata età del neorealismo e alla sua plumbea rappresentazione del dopoguerra.
L’Italia in viaggio verso il futuro è a colori e il bianco e nero diventa la tonalità della storia passata, oppure quella che XII La cineteca richiede l’intenzione estetica raffinata o la flagranza della cronaca colta nel suo farsi, come la morte in diretta dell’Andrea Doria (1956), agonizzante su un fianco nelle acque fatali dell’Atlantico.

Se i film dell’Ansaldo e dell’Italia di Navigazione esibiscono la produzione di manufatti industriali che contengono sul piano immaginario una riconoscibilità d’uso e una potenzialità simbolica che li rende talvolta antropomorfici (la nave come organismo vivente che nasce, si trasforma, muore, e fornita di identità anagrafica col nome e la città d’origine sulla poppa), i documentari sulla siderurgia del fondo Ilva elaborano un processo di simbolizzazione del prodotto acciaio più astratto, quasi più “filosofico” che storico: la materia acciaio è la sostanza della vita moderna, l’anima di tutte le cose che usiamo, un’anima nascosta che si fa visibile nel manufatto. All’umanesimo metalmeccanico dell’Ansaldo ripreso all’interno di quelle cattedrali del lavoro ideate dall’architetto Ravinetti, o all’esterno
sulle impalcature dei febbrili cantieri navali che a Sestri sorgono sotto casa con lo scafo della nave tra i panni stesi, si sostituisce l’antropologia ciclopica della siderurgia che vuole rappresentarsi in forme mitiche. Nel documentario Col ferro e col fuoco (1926) l’Elba è chiamata l’Isola dei Ciclopi e le didascalie del film muto (opera del giornalista Giuseppe Ceccarelli) gareggiano con l’enfasi poetica di D’Annunzio interponendosi a un montaggio di immagini forgiate nell’epica del lavoro, tra le scintille del maglio battuto in sincrono da tre erculei metallurgici e i serpenti di fuoco che strisciano tra operai temprati dalle incandescenze come in una fucina omerica.

La fabbrica dell’acciaio e il monumentale ciclo siderurgico offrono al cinema forti suggestioni e i film che traggono ispirazione dall’argomento mostrano una tensione estetica a volte clamorosamente esplicita, a volte moderata dall’intento didascalico e informativo. Ma la macchina da presa non può rimanere indifferente al dramma infuocato della materia che gradatamente si sottomette all’uomo. Non a caso il film artisticamente più ambizioso progettato da Emilio Cecchi alla direzione della Cines (Acciaio, 1933) s’illumina di bagliori estetici quando entra all’interno dello stabilimento siderurgico di Terni e il montaggio delle immagini crea un maestoso sinfonismo visivo in accordo con la musica. Per trattare il tema dell’acciaio e dei suoi uomini Cecchi scrittura una triade di personalità di sommo livello: Luigi Pirandello come soggettista, Walter Ruttmann come regista e Gian Francesco Malipiero per la partitura musicale. In Acciaio l’epica siderugica si fa solenne con fasci di luci da tempio del lavoro, con profili di uomini su sfondi fiammeggianti, con contrasti fortissimi di luminescenze o oscurità, con composizioni astratte di scintille, con ritmi visivi sorretti dalla musica colta di Malipiero che trapassa dalla materialità acustica all’effetto sinfonico. Pur essendo un film di finzione sviluppato su una trama sentimentale e popolare, Acciaio si propone come un archetipo per lo sguardo del cinema che si avventura sul set abbagliante della fabbrica siderurgica. Ne terranno conto i registi che dagli anni Quaranta agli anni Settanta scriveranno con la macchina da presa la cronaca dell’acciaio prodotto dalla Cornigliano, dall’Ilva e dall’Italsider: da Giovanni Paolucci a Valentino Orsini, da Piero Nelli a Massimo Mida, da Lionello Massobrio a Emilio Marsili, e con loro i narratori e i poeti chiamati a ideare il commento della parola: Dino Buzzati, Franco Fortini, Michele Prisco, Domenico Rea, Oreste Del Buono.
La costruzione della monumentale acciaieria a ciclo integrale Oscar Sinigaglia a Cornigliano (1951-1955) viene orgogliosamente descritta in un documentario di Giovanni Paolucci, suddiviso in nove capitoli che seguono lo stato dell’avanzamento dei lavori sull’arco di quattro anni: la diga, le fondazioni, la cokeria, gli altiforni, l’acciaieria Martin, la centrale termoelettrica, il laminatoio a caldo, il laminatoio a freddo, i servizi ausiliari. L’Italia in cammino verso la rinascita industriale concreta sulla costa del ponente genovese il progetto di Oscar Sinigaglia di produrre acciaio sul mare, sfatando il mito della miniera in casa attraverso una globalizazzione del ciclo siderurgico: i minerali e i materiali ferrosi provengono via mare e il prodotto finito riparte sulle navi per la sua destinazione. Lo stabilimento viene edificato su una superficie di settecentomila metri quadrati ottenuti attraverso il riempimento delle acque costiere con sette milioni di metri cubi di terra derivata dallo sbancamento delle colline antistanti. Genova diventa una capitale dell’acciaio affrontando una forte trasformazione che altera il suo profilo ambientale, ma che arricchisce quello produttivo tradizionalmente delineato dall’impresa meccanica e cantieristica. Il film di Paolucci non è solo un documento sulla ricostruzione industriale, perché testimonia con immagini irrobustite da un realismo magniloquente il sentimento diffuso dell’epoca, la voglia di rinascere attraverso il lavoro, il desiderio di vincere il complesso di inferiorità  nel settore siderurgico, l’offerta generosa di un’occupazione di massa che determina flussi di emigrazione interna modificando l’assetto sociale, oltre che il tessuto urbano. cinete7Quegli uomini al lavoro, che scavano il fondo del mare dentro cassoni stagni e che innalzano le campate dello stabilimento, non stanno solo edificando una fabbrica, ma anche la democrazia in Italia: sembra essere questo il sottotesto del film di Giovanni Paolucci.
Negli anni Sessanta i documentari prodotti dall’Italsider esprimono con lucidità progettuale, e talvolta anche con enfasi poetica, una politica aziendale che esalta con sicurezza deterministica l’equivalenza acciaio-ricchezza, acciaio-progresso:
il nuovo stabilimento siderurgico di Taranto con la sua richiesta di lavoro dovrebbe attuare un’emancipazione della società e dei comportamenti nelle zone
depresse del sud dell’Italia, segnate dalla rassegnazione e dalla miseria. Nel film Il pianeta acciaio (1962) diretto da Emilio Marsili e scritto da Dino Buzzati è espressa la certezza che i contadini, i pescatori, i vasai, i contrabbandieri di sigarette potranno finalmente provare la dignità di un lavoro non precario attraverso l’appartenenza, sia nella fattualità sia nel tempo libero, all’organizzazione salvifica dell’azienda.
Lo stabilimento è una patria ritrovata che dà lavoro, pane certo e infine consumi insperati. Non è lontano il giorno in cui anche l’operaio pugliese potrà avere l’utilitaria, come il compaesano emigrato da tempo al nord, e che ritorna motorizzato al paese natio per le ferie.
La modernità intesa come innovazione tecnologica viene espressa nei documentari che promuovono l’uso dell’acciaio nell’edilizia, magnificando le caratteristiche strutturali, portanti, estetiche ed economiche del prodotto rispetto a quelle dei tradizionali materiali: Una casa d’acciaio (1962) di Giovanni Paolucci, Travi per costruire (1963) di Filippo Paolone, Sopraelevata: una strada d’acciaio (1964) realizzato a Genova da Valentino Orsini seguendo i lavori di costruzione del percorso stradale che si snoda come una lunga carrellata cinematografica tra il panorama della città e quello del porto. Il commento di Franco Fortini, poeta e intellettuale impegnato nella “verifica dei poteri”, è un suggestivo esempio di arte letteraria applicata al mezzo cinematografico. L’assemblaggio dei piloni e delle rampe è tradotto in montaggio filmico e in montaggio di parole secondo ritmi che inseguono le dinamiche del lavoro. Le parole non raddoppiano il senso delle immagini ma cercano di ridefinire il loro significato accordandosi con il movimento sincopato delle inquadrature e della durata sequenziale. Una scrittura-immagine più che una scrittura per le immagini.
 

L’acciaio e il suo multiforme impiego sembrano richiedere sguardi e voci d’autore. Nei filmati che celebrano l’impiego dell’acciaio nell’uso quotidiano, gli anni del boom economico vibrano nelle lamiere e nei lamierini con cui sono fatti gli oggetti dei consumi di massa. Non importa se la portiera dell’Aurelia Sport del Sorpasso (1962) è un po’ ammaccata, basta un sorso dalla lattina di birra e sulla strada del progresso si è pronti a ruggire con una tigre nel motore.
Anche l’imprenditoria privata ligure conserva la sua memoria filmica presso la Cineteca della Fondazione Ansaldo. Il fondo Costa, acquisito nel 2000, ritrae lo sviluppo della società di navigazione impegnata con la Anna C. (1948), con la Federico C. (1956), con la Eugenio C. (1965) sulle rotte di linea verso il sud America, Argentina e Brasile, e a partire dagli anni Settanta in un’attività crocieristica di grande prestigio internazionale. La società olearia Sasso e la dolciaria Dufour restituiscono un’attraente immagine promozionale in una serie di Caroselli degli anni sessanta che fanno riaffiorare l’ésprit del piccolo schermo in bianco e nero, quando la televisione si mostrava nata già grande in giacca e cravatta, mentre oggi vuole apparire giovane, un po’ casual e smutandata tra i grandi fratelli.

Un ritratto sociale di Genova nel Novecento può essere delineato dai film che pongono il cineocchio della macchina da presa nelle strade e nelle piazze per cogliere in flagrante il sentimento collettivo di un tempo e di uno spazio urbano:
dalla classe operaia degli anni Dieci che nella piazza di Sestri Ponente guarda verso l’obiettivo e sorride alla modernità, troppo fiduciosa nell’avvenire in uno sventolio di berretti proletari , alle nuove classi emergenti degli anni Sessanta che alla domenica lavano la Seicento comperata a rate, pattinano sul ghiaccio nel nuovo Palasport della Fiera del Mare, stanno in coda motorizzati e fieri sull’Aurelia, vanno in discoteca di pomeriggio o al cinema per l’ultimo James Bond (Domenica in libera uscita,1966, di Renato Mazzoli).
Su cornici sociali più elevate si colloca il percorso di Giuliano Montaldo (Genova: ritratto di una città, 1964) che dopo essere approdato nel mattino su un liner americano descrive la conformazione economica, politica, comportamentale, artistica, devozionale, del capoluogo ligure: dai moli alle Casacce, dallo scagno al Teatro Stabile, dalla Confindustria al Santuario della Guardia. Ma soprattutto Montaldo vuole far percepire con le immagini e le interviste, con i gesti e le espressioni, la personalità della gente di Genova, chiusa e insieme cosmopolita, con lo sguardo al di là del mare e l’orecchio al telefono per comunicare con gli operatori economici e commerciali di tutto il mondo.
Se registi come Giuliano Montaldo, Valentino Orsini, Dino Risi, filmmaker come Renato Mazzoli, cacciatori fotografici come Giorgio Bergami eleborano l’immagine di Genova e della regione con professionalità artistica, il gruppo dei cineamatori liguri offre una serie di testimonianze spontanee su eventi, realtà e costumi che acquistano col tempo un significativo valore documentario. Per esempio la demolizioni di interi quartieri del centro di Genova, che tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta devono essere sacrificati da ineluttabili piani urbanistici in nome della razionalità viaria e direzionale. Al di là dell’afflato nostalgico per le reliquie del passato, rimangono le inquadrature in superotto di una trasformazione epocale che gli sguardi ufficiali del cinema hanno trascurato.
Nel progetto culturale della Fondazione Ansaldo, configurata come un archivio economico e documentale delle imprese italiane, la Cineteca costituisce un patrimonio di testimonianze visive che si integra nella missione scientifica della ricerca storica. L’istituzione di un archivio cinetecario della Liguria, promosso dalla Regione, dall’Ansaldo e dall’Università di Genova, risale al 1988. Sull’arco temporale di oltre vent’anni di attività la Cineteca ha acquisito, conservato e restaurato un corpus cinematografico di cinquemila film, catalogabili in documentari, film istituzionali d’impresa, attualità, cinegiornali, filmati promozionali, didattici, illustrativi, produzioni amatoriali. Nel 2000 l’Archivio Cinetecario Ligure è confluito nella Fondazione Ansaldo, definendo in modo più riconoscibile un’attività culturale al servizio delle esigenze pubbliche e private di ricerca e di studio.
La Cineteca ha assunto un’identità originale, e forse unica nel novero degli archivi cinematografici italiani, non solo per il numero di film in catalogo e per i termini temporali delle produzioni (dai primi anni del Novecento ai giorni nostri), ma soprattutto per una specifica aderenza storica al territorio. Ciò non significa limitare la propria area di interesse a una dimensione provinciale e appartata.
Significa invece attuare un sistema di decentramento archivistico in grado di esprimere una peculiare cultura del territorio e presentarsi quindi come un punto di riferimento altamente connotato dalla specificità scientifica.
Il nastro di celluloide del cinema è oggi qualcosa di più che la pelle della storia.